Il ragazzino, muovendosi con circospezione, appoggia sui sassi del rigagnolo una fiaschetta di vetro contenente alcuni piccoli vermi. La moscariola, in dialetto moscariòea, ideata per catturare le mosche funge in questo caso da rudimentale strumento di pesca. Dopo una paziente attesa, il fanciullo solleva l’ampolla e la scruta con soddisfazione: all’interno un sinuoso cobite nuota freneticamente assieme a una miriade di sanguinerole: la cena è assicurata!
Il cobite comune o italico (Cobitis bilineata) è conosciuto nella Marca Trevigiana e in Veneto con diversi nomi dialettali: cagneta, salamprèa, forasass, forapièra, foraprìa, forasecchi e forasassi. Di modeste dimensioni, al massimo sei-sette centimetri, ha il corpo viscido e una livrea bruno verdastra sul dorso e bianco avorio sul ventre; i fianchi sono solcati da una fila di macchioline scure.
La bocca è provvista di sei corti barbigli e sotto gli occhi si cela una caratteristica spina acuminata. Molto simile al cobite italico è il cobite mascherato (Sabanejewia larvata), specie originaria dell’Italia settentrionale, introdotta nei corsi d’acqua e nei laghi del centro sud e sovente confusa con C. bilineata.
Presente nei piccoli corsi d’acqua, nei fiumi di pianura e nei laghi più estesi, il cobite ama i fondi sabbiosi e melmosi ove può infossarsi a suo piacimento. Di indole gregaria non gradisce la luce intensa ed è più attivo di notte o al crepuscolo. Una sua curiosa caratteristica è quella di sopportare bene la scarsità ossigeno grazie alla generosa dimensione delle branchie e alla sorprendente capacità di respirare attraverso l’intestino.
Il cobite si nutre di vermi, crostacei, insetti e frammenti di alghe. A sua volta è minacciato da virosi, batteriosi ed è predato da uccelli acquatici, bisce d’acqua e pesci predatori come il persico, la trota e il pesce gatto.
Specie in declino a causa dell’inquinamento, per via delle esigue dimensioni non ha mai rivestito un ruolo di primo piano nella pesca professionale, né ha mai suscitato forti interessi commerciali: nella seconda metà dell’Ottocento se l’anguilla costava 1,80 lire al chilo, il prezzo dei di cobiti arrivava a malapena a 0,80.
Utilizzato come esca viva per catturare trote e lucci, il cobite in cucina seguiva le sorti delle prede piccole e occasionali: frittura in olio o, più frequentemente, nel più economico strutto di maiale, l’onto.
Gli strumenti di pesca impiegati per catturare i cobiti, a parte la lenza tradizionale armata con ami di piccole dimensioni e la moscariola, erano le reti a maglie fini, delle piccole nasse e il restelòn, un rastrello munito di denti di legno col quale si dragava il fondo per trascinare le prede sulla riva.
Alessandro Ninni, autore della “Pesca nella Provincia di Treviso” (1887) denuncia il declino del cobite con queste parole: “Riesce sommariamente nocevole a questa specie, come a qualche altra, l’uso che vi è tra noi a porre il canape a marcire nei fossati giacché tale cosa reca morte a tutti i pesci e gamberi che a caso si trovassero in quel luogo”.
A distanza di oltre un secolo la situazione non è migliorata: sulla sorte dell’inerme e grazioso cobite incombono nuove minacce, ben più preoccupanti e subdole delle venefiche esalazioni generate dalle fascine di canapa putrescenti.
(Foto: Provincia di Bolzano).
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