Navigando nel canale Fusina in direzione della Giudecca, a poca distanza da Sacca Sessola e da San Giorgio in Alga ci si imbatte in un’isola abbandonata, Sant’Angelo della Polvere, un tempo conosciuta col nome di Sant’Angelo di Concordia.
Circondata dalle rovine di vecchie fortificazioni militari, invasa dalla vegetazione spontanea e battuta dai venti l’isola, per lo stato in cui versa, ispira inquietudine e malinconia. Chi non avesse modo di visitarla può farsene un’idea abbastanza precisa attraverso le immagini in bianco e nero che corredano il saggio di Giorgio e Maurizio Crovato Isole abbandonate della laguna (1978).
Osservandola sulla carta Sant’Angelo appare come una minuscola tessera del complesso mosaico lagunare sulla quale incombe Venezia, un pesce pronto a fagocitare quel frammento di terra e cancellare, una volta per tutte, il suo oscuro e imbarazzante passato.
Giuseppe Tassini, autore dell’originale manuale di toponomastica Curiosità Veneziane (1863) afferma che la specificazione Concordia, successivamente mutato in Contorta, si deve alle tre sorelle Zuccato che, per prime, indossarono “di concordia” l’abito di San Benedetto ritirandosi nel monastero fondato dalla propria famiglia.
Flaminio Corner, patrizio veneziano autore di una monumentale Storia ecclesiastica veneta pubblicata nel Settecento asserisce che in tempi remoti sull’isola detta Contorta sorgeva un convento di monache benedettine devote all’Arcangelo Gabriele. Le monache subentrarono a una precedente congregazione maschile stabilitasi sull’isola attorno al 1060, epoca a cui risale la creazione del primo cenobio avvenuta sotto il dogado di Domenico I Contarini.
Nell’anno 1474 il Patriarca di Venezia Maffeo Gerardo (1406 – 1492) nella veste di delegato apostolico procedette alla soppressione dell’ordine benedettino e alla destituzione della badessa ottemperando alle disposizioni di papa Sisto IV (1414 – 1484), un francescano di origini liguri salito al Soglio pontificio all’età di cinquantasette anni. Sisto IV, è bene ricordarlo, fu un fine teologo, appoggiò ben due Crociate contro i Turchi e sebbene fosse contrario agli eccessi dell’inquisizione spagnola non si oppose alla nomina del primo Grande Inquisitore, il domenicano Tomas de Torquemada (1420 – 1498), noto per la sua spietatezza.
Fatte queste considerazioni, utili a comprendere il clima dell’epoca, ritorniamo sull’isola di Sant’Angelo per cercare di far luce sulle ragioni della cacciata delle monache di San Benedetto.
Sulla vicenda il Corner non fornisce alcun dettaglio e del resto non c’è da stupirsene: formatosi presso i Gesuiti, egli non abbracciò la carriera ecclesiastica soltanto per ragioni di successione ed è verosimile che abbia fatto di tutto per non alimentare il clamore di uno scandalo che minacciava pesantemente la reputazione della Chiesa cattolica lagunare. Pare tuttavia che anche papa Eugenio IV (1383 – 1447), il quale aveva compiuto i primi studi teologici presso la comunità agostiniana di San Giorgio in Alga, avesse già manifestato l’intenzione di disperdere la comunità monastica di Sant’Angelo.
Dunque, su quel francobollo di terra circondato dalle acque, qualcosa di strano doveva essere accaduto. Ma cosa? E perché il monastero è stato soppresso?
Sebbene buona parte della storia dell’isola di Sant’Angelo rimanga avvolta da una foschia impenetrabile, da più parti affiorano chiari riferimenti alla condotta sconveniente delle monache di Sant’Angelo di Contorta.
Ermolao Paoletti, nel 1837, non esita a collegare la fama dell’isola con la “scioltezza delle sue abitatrici”, descritte come caparbie e ostinate tanto che “fu forza levarle di là” per concentrarle altrove. La disinvoltura delle monache benedettine trova conferma anche nell’opera Vecchie isole veneziane (1913) di Daniele Ricciotti Bratti il quale, senza mezzi termini, afferma come nel XV secolo “essendosi raffreddato l’antico fervore, e subentrata la corruttela de’ costumi, era il cenobio divenuto uno dei più liberi che allora ci fossero”.
Da qui alle interpretazioni più pruriginose il passo è breve e ancora oggi alle religiose vengono attribuiti aggettivi espliciti: allegre, lussuriose, scandalose. Quanto basta ad alimentare una narrativa piccante e che indugia su dettagli piccanti ai confini con il voyeurismo.
Le monache, ostentando le loro grazie dalle finestre del convento, secondo alcuni avrebbero finito con l’attirare l’attenzione dei pescatori di Pellestrina e Malamocco i quali, dopo aver soddisfatto le loro brame sull’isola, avrebbero ricompensato la generosità delle religiose con parte del pescato, ostriche comprese. Le mogli dei pescatori, indispettite più dai mancati guadagni che dal tradimento, in un moto di ribellione collettivo che ricorda le comari di Bocca di Rosa pare siano ricorse “all’ordine costituito”; e come nella celebre ballata di De André, dopo la sassaiola con la quale le monache ribelli accolsero i preti inquisitori, sull’isola sbarcarono i gendarmi “con i pennacchi e con le armi” incaricati di riportare l’ordine e il decoro in quel luogo immorale.
Comunque sia andata gran parte delle monache peccatrici trovò rifugio nel convento benedettino di Santa Croce alla Giudecca, lontano dalle tentazioni carnali ma anche da un’emarginazione e da una precarietà insostenibili.
Trascorrere la propria esistenza su quell’isola inospitale, disabitata “per l’incomodità del luogo e le intemperie dell’aria” priva di acqua, “umile e solitaria” doveva essere davvero disumano. Fatto sta che dopo lunghi anni di abbandono il luogo della colpa, il monastero di Sant’Angelo, venne ceduto nel 1518 ai Carmelitani di Mantova.
I nuovi abitanti dell’isola, racconta Corner, animati dalla fede inizialmente si mostrarono grati ed entusiasti per quella generosa concessione tanto che non esitarono a ricompensare l’Ordine benedettino con la donazione, due volte all’anno, di una “candela di cera bianca di libbre due”.
Alla lunga però i disagi dell’isola ebbero la meglio anche sull’ardore dei padri mantovani che nel 1555, dopo trentasei anni di privazioni e sacrifici, lasciarono Sant’Angelo di Contorta per stabilirsi in un monastero diroccato della Giudecca, sul Monte dei Corni, in precedenza appannaggio dei frati Cappuccini. Il luogo, spiega il Tassini, fu consacrato nel 1600 e prese il nome di Sant’Angelo vuoi per una figura d’angelo scolpita sulla facciata o più probabilmente a ricordo della desolata isola abbandonata dai Carmelitani.
A rompere il silenzio inquietante di Sant’Angelo di Contorta furono dunque le voci e i tamburi degli artiglieri incaricati di sorvegliare una polveriera costruita sull’isola e saltata in aria nell’agosto del 1689 perché colpita da un fulmine. Un apprestamento effimero che tuttavia ha lasciato traccia nel nome dell’isola, dal 1555 detta appunto Sant’Angelo della Polvere.
Da allora sino alla metà del XX secolo, seppure a fasi alterne, l’isola ha assolto funzioni militari piuttosto marginali. Solo nella prima metà dell’Ottocento, e precisamente nel 1849, Sant’Angelo della Polvere è tornata per un’ultima volta alla ribalta e stavolta non per uno scandalo, ma per un fortunoso ritrovamento archeologico. All’epoca Venezia era assediata dagli austriaci e nel vano tentativo di individuare una falda d’acqua dolce alcuni soldati scavarono una vasca al centro dell’isola. L’acqua si rivelò “salsa e contaminata”, dunque imbevibile, ma dallo scavo di circa tre metri emerse un altare funerario con iscrizioni risalente al I secolo a.C. Il reperto, secondo gli archeologi, getta una luce diversa sull’isola che forse un tempo fece parte di un insediamento preromano e romano diffuso: un sito tutt’altro che remoto che, grazie a vie d’acqua naturali e artificiali, era in collegamento con l’Annia, la Popilia e forse la Claudia Augusta.
Oggi le grida dei gabbiani e l’urlo del vento hanno ripreso il dominio dell’isola di Sant’Angelo, cancellando per sempre l’eco delle preghiere e dei canti liturgici, le voci dei soldati, il rullo dei tamburi, i gemiti di disperazione e gli scandalosi sospiri amorosi.
I rampicanti con le loro spire intricate inghiottono, giorno dopo giorno, le fatiscenti mura fortificate. E dove non arriva la vegetazione a completare l’opera ci pensano i venti e le acque salmastre della laguna che prima o poi avranno la meglio anche sulle pareti più solide.
Sull’isola è ripiombato un tetro squallore carico di un’ipocrisia e di un moralismo più soffocanti dell’afa ripugnante che pesava sulle calli percorse da Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, che in preda a pulsioni scandalose e deliranti solcava la laguna accecato da una voluttà inconfessabile.
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