In vista dell’anniversario dei 700 anni dalla morte di Marco Polo, che si celebrerà nel 2024, anche in Veneto si sta lavorando all’organizzazione di eventi e seminari per approfondire le relazioni tra l’Italia e la Cina.
La domanda che dobbiamo porci, però, è legata alla nostra reale conoscenza del colosso asiatico, ancora troppo condizionata dalla propaganda anti-cinese e da alcuni pregiudizi difficili da sradicare.
Il celebre giornalista e sinologo trevigiano Adriano Màdaro ha intitolato così il decimo capitolo del suo libro “Capire la Cina” (Giunti Editore): “Ritratto di un popolo diverso”, fornendo un approfondimento delle relazioni dei viaggi in Cina scritte da occidentali tra Ottocento e primo Novecento.
Come si può immaginare, già allora emergeva una visione che mescolava una serie di luoghi comuni che nel tempo hanno impresso nel nostro immaginario collettivo una “certa idea” dei cinesi.
“Il codino dei cinesi – racconta Màdaro -, che nel Settecento non aveva per nulla attirato l’attenzione degli europei, avvezzi anch’essi alla moda dei codini infiocchettati e delle parrucche, diventò nell’Ottocento l’elemento distintivo dei sudditi celesti, tanto da essere notato come una caratteristica bizzarra. La moda della treccia, indistintamente portata da tutti gli uomini del Celeste Impero e con grande disinvoltura, venne imposta dai conquistatori Manciù alla metà del Seicento e sopravvisse fino ai primi decenni del Novecento”.
Il sinologo originario di Oderzo ha spiegato che tutti i cinesi, dall’imperatore al più infimo dei facchini, esibivano la treccia nera lunga fino ai piedi (ne erano privi solo i monaci buddhisti).
“I tartari prima di conquistare la Cina non erano caudati – continua -, però dovettero anch’essi pettinarsi con la treccia perché l’imperatore aveva ordinato a tutti i barbieri di percorrere villaggi e città con il rasoio in mano e la spada nell’altra, lasciando ai cinesi l’alternativa di farsi tagliare i capelli oppure la testa. Questa legge draconiana fu causa di frequenti rivolte, sempre soffocate nel sangue delle teste che rotolavano abbondanti”.
Màdaro racconta che nessun atto era ritenuto più offensivo per un cinese del taglio del codino, al quale ognuno dedicava grandi cure che rasentavano perfino la superstizione.
“Nell’Ottocento erano le cinesi a incuriosire i viaggiatori europei – prosegue nel suo racconto -, ed è a loro che vennero dedicate le maggiori attenzioni nei diari. Chi visitava per la prima volta la Cina si meravigliava molto di non vedere né la moglie né le figlie del padrone di casa e annotava come nei ricevimenti le donne della famiglia fossero invisibili, non prendevano parte ai banchetti e al loro posto erano invece invitate le cortigiane, educate a rallegrare gli uomini con la loro presenza, le loro canzoni e la loro grazia”.
L’uomo occidentale è rimasto inorridito dalla pratica cinese di fasciare i piedi delle bambine per mantenerli piccoli.
Il Loto d’Oro era il nome dato al piede “modificato” con processi alternati di rottura delle ossa e bendaggi, che ne diminuivano le dimensioni e gli conferivano l’aspetto di una mezzaluna.
Alla fine del processo, le donne camminavano barcollando, con un’andatura che, secondo la tradizione, richiamava la grazia del fiore di loto al piegarsi del vento.
“Vi era una certa differenza tra le donne cinesi e le manciù – spiega Màdaro -. Mentre le prime si fasciavano i piedi, le seconde non li storpiavano e calzavano scarpe di raso o di seta con un’alta suola bianca ottenuta cucendo insieme molti strati di cotone imbottito. Le manciù poi differivano anche nel vestire, indossavano calzoni identici agli uomini e allacciati sulle calze bianche o azzurre con un nastro di colore vistoso. La camicia, di cotone o di seta, era un corpetto corto, si allacciava sul fianco con gli alamari e scendeva di poco sotto le anche”.
Il sinologo trevigiano ha aggiunto che in nessun altro Paese al mondo come in Cina le usanze venivano osservate con più severità, e spesso con un significato diametralmente opposto al nostro.
“Se una persona riceveva una visita – racconta -, non levava il cappello ma se lo metteva in capo. Non stringeva la mano all’amico ma stringeva la sua. Non gli cedeva la destra al passaggio, ma la sinistra. La tavola da pranzo non aveva la tovaglia bianca, perché il bianco è il colore del lutto. Non c’era proprio la tovaglia. Nessun cinese desiderava apparire più giovane, ma più vecchio. Anzi, il migliore complimento che gli si potesse fare era che appariva più vecchio di ciò che non fosse effettivamente. Al posto del bastone portava il ventaglio”.
È curioso sapere che a passeggio il cinese di un tempo non conduceva cani, ma uccelli canori in gabbia o semplicemente legati per una zampetta al dito indice.
Una delle peggiori offese per un cinese, inoltre, era che qualcuno gli pestasse il dito piccolo del piede.
In Cina c’era anche il Ministero dei Riti, che aveva l’incarico di codificare le cerimonie per i giorni di festa, degli ordinamenti militari e amministrativi, delle nascite, dei funerali, dei matrimoni, dei costumi, dei vestiti da indossare d’estate e d’inverno e molto altro ancora.
Insomma, la legge decretava anche come dovessero essere realizzati gli abiti, di quale colore, quanti bottoni ecc.
Le norme stabilivano anche otto gradi di saluti: il più importante era quello dovuto all’imperatore, il koutou, che consisteva nel lasciarsi cadere sulle ginocchia con le gambe chiuse toccando il suolo con la fronte, pratica alla quale gli ambasciatori europei del Seicento e del Settecento sempre si rifiutarono.
Nel suo libro Màdaro parla di altre “stranezze” dei cinesi: cominciavano il pranzo con il dessert per finire con la zuppa; non parlavano mentre mangiavano ma solo alla fine; non usavano le posate ma solo le bacchette (ormai siamo abituati anche in Occidente a mangiare con le bacchette); un coltello sulla tavola avrebbe costituito una grave offesa all’etichetta perché era assimilato a un’arma; scrivevano con il pennello e non con la penna; iniziavano la lettura di un libro da quella che per noi era l’ultima pagina.
E ancora: nelle lettere prima scrivevano l’anno, poi il mese e per ultimo il giorno; d’estate bevevano acqua calda salata anche nel colmo della calura e d’inverno indossavano più abiti uno sopra l’altro, badando di coprire soprattutto le gambe.
“Oggi – conclude il sinologo -, raccontare ai cinesi queste loro usanze nemmeno tanto antiche, ma perlopiù sconosciute, provoca loro un benevolo sorriso di incredulità, nei più colti e sensibili anche qualche comprensibile disagio”.
(Foto: FarodiRoma).
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