Sin dalla notte dei tempi l’uomo ha infilzato carni, pesci e verdure su bastoncini di legno, ossa acuminate e punte metalliche per rosolare il cibo senza scottarsi. Uno stratagemma talmente efficace che, da mezzo di fortuna, lo spiedo è assurto al rango di protagonista di un vero e proprio rito gastronomico celebrato in ogni angolo del globo.
I piatti iconici legati allo spiedo sono centinaia e spaziano dal churrasco sudamericano al kebab mediorientale, al souvlaki ellenico; in Italia, solo per citarne alcuni, sono celebri lo spiedo bresciano, il maialetto sardo, gli arrosticini abruzzesi, la porchetta di Ariccia, l’arrosto girato toscano. In Veneto, lo spiedo d’Alta Marca non solo è annoverato fra i Prodotti agroalimentari tradizionali, ma gode della tutela di uno speciale sodalizio. L’Accademia dello Spiedo d’Alta Marca, nata nel 2006 a Pieve di Soligo, si prefigge lo scopo di valorizzare questo piatto tipico anche attraverso la divulgazione degli aspetti storico-culturali. Una mission ambiziosa alla quale ha contribuito anche lo storico dell’agricoltura e dell’alimentazione Danilo Gasparini, autore dell’articolo “Lo spiedo tra storia e cultura” disponibile online su www.accademiadellospiedo.com/articoli/lo-spiedo-tra-storia-e-cultura/.
Che lo spiedo, non soltanto quello veneto, sia una cosa seria lo conferma anche il saggista bassanese Otello Fabris il quale, non a caso, ha intitolato una delle sue appassionanti ricerche “Introduzione all’arte dello spiedo”: ennesima riprova di come l’abilità e l’esperienza di chi sorveglia gli schidioni siano virtù essenziali per nobilitare anche gli ingredienti più umili.
Le radici del termine spiedo affondano in lingue antiche come il francese arcaico (espiet), il francone (speut), il germanico (spiess) e il longobardo (spit); è curioso constatare come la parola spiedo indichi non soltanto l’asta acuminata e sottile usata per cucinare, ma anche un’arma medievale per la guerra e la caccia al cinghiale.
Restando in ambito gastronomico e volgendo lo sguardo al passato, gli spiedi della Grecia classica, risalenti a circa 3.000 anni fa, sono fra i più remoti antenati di quelli odierni. Come si evince dal saggio “A Tavola tra Mari e Vulcani” le carni arrostite sullo spiedo e le abbondanti libagioni di vino sono un’immagine ricorrente tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea. L’autore, il naturalista e archeologo Alfredo Carannante, si sofferma sulla duplice accezione conviviale e religiosa del banchetto omerico, occasione per offrire sacrifici agli dei e godere dei piaceri terreni: il buon cibo, la compagnia degli amici, la poesia epica declamata dagli aedi.
Gli eroi omerici, reduci da una battaglia o da un naufragio, stremati e in procinto di affrontare immani pericoli, erano comunque sempre pronti ad accendere un fuoco e arrostire immani porzioni di carne. Comodamente seduti su scranni di legno “ottimamente levigati” e coperti da preziosi drappi purpurei, gli antichi greci apprezzavano ogni sorta di carne: maiali, pecore, capre, vitelli, tori, buoi e vacche venivano arrostiti e serviti assieme a piccoli pani morbidi o a polpette d’orzo tostato dette maza.
Pesci, molluschi, crostacei e uccelli godevano invece di una reputazione nettamente inferiore: i seguaci di Ulisse pescavano soltanto quando le provviste scarseggiavano e nessuna preda marina reggeva il confronto con i succulenti spiedi di carne. Una bramosia che spinse i dissennati e avidi compagni di Odisseo a saccheggiare gli armenti consacrati al dio Elios provocando l’ira degli dei.
Secondo gli studiosi di storia dell’alimentazione la tecnica utilizzata dagli antichi greci per cucinare lo spiedo era più o meno questa. Dopo la macellazione, gli animali venivano spellati e privati del grasso sottocutaneo che serviva ad avvolgere le ossa più grandi da porre sulle braci.
Mentre il calore ammorbidiva il grasso, i convitati si dedicavano “all’antipasto”: in primis le interiora, i kokoretsi, viscere intrecciate sullo schidione che tanto ricordano alcuni piatti tipici della nostra tradizione come la cordula sarda, le stigghiole sicule o gli gnommareddi molisani, pugliesi e calabresi. Fra le entrée vi erano anche formaggi, cicorie, cavoli, cipolle e olive. Non mancava la frutta, solitamente rappresentata da melagrane, uva, fichi freschi e secchi. Per ingannare l’attesa della portata principale, così come oggi si abbrustoliscono fette di pane per farne bruschette, gli antichi adagiavano sulle braci delle testuggini che poi consumavano direttamente nel guscio.
Quando il lardo sfrigolava era il momento di cuocere i tagli di carne più nobili, la coscia e il petto, protetti dal calore eccessivo grazie a generose aspersioni di vino nero. Tipica degli antichi greci era l’usanza, a fine cottura, di cospargere le carni con manciate di farina bianca che, assorbendo il grasso in eccesso, si trasformava in una deliziosa crosticina.
Il forte vino greco era indispensabile per favorire la digestione di cotanto bendidio: diluito anche con venti parti d’acqua per mitigarne la robustezza, talvolta veniva arricchito con formaggio di pecora grattugiato, lo stesso che qualche buongustaio spolverava sulle carni ancora sfrigolanti.
Tale era l’amore degli eroi omerici per lo spiedo che l’astuto Ulisse, alla deriva nel Mediterraneo, assieme alla nostalgia per Itaca, non nascondeva la rabbia nei confronti dei Proci che ogni giorno divoravano le sue capre più grasse, i suoi maiali più belli, le sue giovenche più floride. Per vendicarsi di tanta sfrontatezza, tornato a Itaca, Odisseo non esitò a fare piazza pulita di quegli odiosi usurpatori, trafitti con frecce e lance “dal cuspide aguzzo di bronzo” con la lucida ferocia del guerriero e la sistematica precisione di chi predispone uno spiedo.
Finalmente riappropriatosi della propria dimora e della propria famiglia, il valoroso Ulisse si accinse a godere dei piaceri della vita. E fra questi il più grande al mondo, la pace che “regna serena sul popolo tutto”. Uno stato di grazia nel quale: “i signori a banchetto porgono orecchio a un divino cantore, e son presso le mense
colme di pani e di carni, e attinge il coppier dalla conca
vino soave, lo reca d’attorno, ne colma le coppe” (Odissea, canto IX).
(Autore: Marcello Marzani)
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