La Scienza della sostenibilità: un antidoto all’eco-illusionismo contemporaneo

Benvenuti nell’era della sostenibilità da vetrina, dove due piantine su un terrapieno in un centro commerciale meritano un cartello celebrativo: “Ecosistema Urbano Biodiverso – Il Nostro Impegno per il Pianeta”. Il direttore del centro, con tre cravatte sovrapposte in una bizzarra stratificazione che sembra voler simboleggiare il suo triplo impegno per profitti, pianeta e pubbliche relazioni, sorride soddisfatto davanti a quel lembo di terra grande quanto un tovagliolo mentre i fotografi immortalano questo monumentale contributo alla salvaguardia della biosfera terrestre.

La sostenibilità e la biodiversità sono diventate vittime di un’operazione di marketing tanto sofisticata quanto ridicola. Assistiamo quotidianamente a questa commedia dell’assurdo in cui concetti scientifici complessi vengono ridotti a espedienti pubblicitari.

L’arte del greenwashing ha raggiunto livelli di maestria tali che persino Machiavelli si dichiarerebbe impressionato. Assistiamo a una gara di creatività comunicativa per trasformare iniziative microscopiche in rivoluzioni ecologiche epocali. Una multinazionale che riduce dell’1% l’uso di plastica nelle proprie confezioni organizza conferenze stampa degne dell’annuncio di una cura per il cancro. Un’azienda automobilistica celebra la propria “svolta verde” perché ha installato una fontanella a risparmio idrico nella sede centrale.

Particolarmente spassoso è il fenomeno dei “giardini aziendali” – quei fazzoletti di terra con tre varietà di piante che vengono presentati come “oasi di biodiversità”. Come dimenticare l’inaugurazione solenne del “Parco della Biodiversità” di un noto centro commerciale: dopo il taglio del nastro, i giornalisti locali hanno scoperto che il “parco” consisteva in due arbusti, un cespuglio di lavanda e un cartello esplicativo a caratteri cubitali più grande delle piante stesse.

La narrazione mainstream ha trasformato l’ambientalismo in un’estetica, un accessorio di lifestyle che si può indossare come una borsa di tela con su scritto “Save the Planet” prodotta in qualche fabbrica asiatica a basso costo. La sostenibilità è diventata una questione di apparenza, non di sostanza. Ciò che conta è sembrare verdi, non esserlo davvero.

I media contribuiscono allegramente a questa farsa. “Azienda X inaugura programma di sostenibilità rivoluzionario”, titola il giornale, per poi rivelare nel paragrafo 17 che il “programma rivoluzionario” consiste nell’aver sostituito i bicchieri di plastica con quelli di carta nella mensa aziendale. Le dichiarazioni corporate vengono riportate acriticamente, come se un comunicato stampa fosse una pubblicazione scientifica sottoposta a peer review.

Particolarmente divertente è la retorica della “piccola azione che fa la differenza”. Certo, spegnere la luce quando uscite dal bagno è importante, ma forse non compenserà le centinaia di migliaia di tonnellate di CO2 emesse dalle industrie pesanti. Eppure, le campagne di sensibilizzazione ci fanno sentire eroi ambientali perché differenziamo correttamente la carta dalla plastica, mentre le questioni strutturali rimangono comodamente nell’ombra.

Nel frattempo, le grandi aziende hanno scoperto che essere “sostenibili” può essere redditizio, purché la sostenibilità rimanga superficiale e non intacchi i modelli di business. Così nascono i prodotti “eco-friendly” che costano il 30% in più dei loro equivalenti “non-eco”, permettendo alle aziende di lucrare sulla coscienza ambientale dei consumatori più abbienti. L’ambiente diventa un segmento di mercato, non una responsabilità collettiva.

La scienza della sostenibilità critica ci invita a guardare oltre questa pantomima verde, riconoscendo con ironia che due piantine in un centro commerciale non costituiscono un “ecosistema urbano sostenibile”, proprio come un panda disegnato sul logo aziendale non salva le specie in via d’estinzione. Ci suggerisce di distinguere tra azioni significative e gesti simbolici vuoti, tra trasformazioni strutturali e operazioni cosmetiche.

Forse è tempo di ammettere che non salveremo il pianeta comprando bottiglie d’acqua con etichette più sottili o applaudendo l’inaugurazione dell’ennesimo “angolo verde” aziendale grande quanto un tavolo da ping pong. La scienza della sostenibilità critica ci offre gli strumenti per decifrare questa commedia dell’assurdo e ricordarci che dietro l’eco-illusionismo contemporaneo si nascondono questioni strutturali che richiedono molto più che qualche piantina ornamentale strategicamente posizionata per le foto di rito.

(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
(Articolo e foto di proprietà di Dplay Srl)
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