Cosa hanno in comune la Leggenda del Piave, il canto patriottico per eccellenza, e la Tammurriata nera, travolgente motivo partenopeo reso celebre da Roberto Murolo e Renato Carosone? Che legame c’è fra il Piave che il ventiquattro maggio “mormorava calmo e placido” e quella creatura nata nera che “’a mamma o chiamma Ciro”? Entrambi i brani nascono dall’ispirazione di Giovanni Ermete Gaeta, in arte E.A. Mario, napoletano classe 1884, protagonista della canzone italiana del secondo dopoguerra.
Figlio di un barbiere e di una casalinga di origini salernitane, Gaeta trascorre la propria infanzia a Napoli nel rione Sant’Antonio. Abita assieme ai genitori, un fratello, due sorelle, tre zie e uno zio in un basso (‘o vascio), una di quelle modestissime abitazioni al piano terra che Matilde Serao descrive come “case in cui si mangia e si muore nella stessa stanza”.
Il suo approccio con la musica avviene prestissimo e casualmente: un cliente dimentica in barberia il mandolino e Giovanni, incuriosito, inizia a strimpellare; grazie ai fascicoli della “Musica senza maestro” impara a leggere le note e perfeziona rapidamente la propria formazione di musicista autodidatta.
Il giovanissimo Gaeta deve tuttavia sbarcare il lunario, il mandolino non basta, e dunque si rassegna a lavorare alle Poste, sportello vaglia e raccomandate. Giovanni Ermete ha un’intelligenza fervida e una fantasia sconfinata, oltre alla musica lo appassionano la storia e la letteratura. Fare l’impiegato è un ripiego per chi, povero come lui, ha dovuto rinunciare al sogno di diventare capitano di lungo corso. Mentre Giovanni appone meccanicamente i timbri sulla corrispondenza la sua mente vaga altrove, si assenta con il pensiero (e spesso con il fisico) dall’ufficio finendo con l’essere licenziato per scarso rendimento; soltanto la sua fama di patriota e musicista spingeranno i vertici delle Regie Poste a revocare successivamente il drastico provvedimento.
Giovanni ama suonare e scrivere poesie. Prima di essere assegnato alle Poste di Napoli presta servizio a Bergamo e scrive per il periodico genovese “Il Lavoro” con lo pseudonimo Hermes o Ermes.
Nel 1904, per un bizzarro disegno del destino, Gaeta è protagonita di un incontro decisivo per il proprio futuro. A Palazzo Gravina, sede delle poste napoletane, egli si trova dinanzi Raffaele Segrè, maestro della canzone napoletana; per nulla intimorito plaude alla musica del celebre artista, ma ne critica l’inconsistenza dei testi. L’insolenza del “guaglione” non irrita il Segrè che, quasi per sfida, gliene commissiona uno. Nasce “Cara mammà”, un successo strepitoso che – sarà un caso? – inizia proprio così: “Cara mammá, faciteme ‘o favore, mannáteme nu vaglia ‘e vinte lire … (Cara mamma, fatemi un favore, mandatemi un vaglia da venti lire).
Giovanni firma l’opera come “E. A. Mario”, un nome d’arte dove la E sta per Ermete, la A è un tributo al caporedattore del Lavoro Alessandro Sacheri e Mario un omaggio al patriota mazziniano Alberto Mario e alla poetessa polacca Marie Clinazovitz.
Le frequentazioni con Eduardo Scarpetta, padre di Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, con l’editore Ferdinando Bideri, il fervore patriottico e l’estesa cultura valgono a Gaeta notorietà e successo, ma non gli procurano alcuna ricchezza: per assistere la moglie, seriamente ammalata, egli cede i diritti artistici a un editore milanese accontentandosi di una modesta provvigione.
La seconda battaglia del Piave (giugno 1918) o “battaglia del Solstizio” come la ribattezzò D’Annunzio, scatena l’entusiasmo patriottico e soprattutto la vena poetica di E. A. Mario che scrive di getto “La leggenda del Piave”. Sarà lo stesso Armando Diaz, anch’egli napoletano e capo di stato maggiore del Regio Esercito, a riconoscere a Gaeta il valore di un brano che sostiene i combattenti e li “incita più di un generale”.Al riguardo c’è da dire che, passata la prima ondata di entusiasmo, le istituzioni militari chiederanno all’autore di modificare una strofa reputata sconveniente e la parola “tradimento”, riferita alla rotta di Caporetto, diventerà “fosco evento”.
Apprezzato cantore delle glorie italiche, durante il Ventennio Gaeta contribuisce a celebrare il regime con canzoni dai titoli inequivocabili: “Inno del Grano”, “La fede d’acciaio”, “Me ne frego!” e “Serenata a Selassié”, dedicata all’impresa coloniale del Duce. I toni razzisti di quest’ultimo brano non devono tuttavia trarre in inganno perché nella quotidianità Giovanni Ermete è un uomo di gran cuore. Lo dimostra la genesi di “Tammurriata nera”: siamo nel ’44 e una ragazza napoletana dà alla luce un bimbo di colore, frutto dell’amore con un soldato americano. All’epoca non era un fatto sporadico, ne parla anche Curzio Malaparte nel suo capolavoro “La pelle”. Gaeta rimane colpito dal coraggio della ragazza che non ripudia il neonato e, commosso, scrive di getto il testo divenuto celeberrimo.
Amato dal popolo e da artisti del calibro di Beniamino Gigli ed Enrico Caruso, nel corso della propria carriera E.A. Mario scrive qualcosa come duemila canzoni, alcune delle quali musicate, oltre a numerosi articoli di storia, favole e componimenti poetici. Il 24 giugno 1961 si spegne nella sua abitazione napoletana abbandonandosi, sue le parole, all’eterno “suonno senza suonno”.
La sua fama resta intimamente legata a brani quali la più volte citata “Tammurriata nera”, “Profumi e balocchi”, “Ronda di notte”, “Vipera” e, soprattutto, “La leggenda del Piave”, commovente premessa al “Silenzio” per onorare i Caduti.
A Santa Croce del Montello, luogo simbolo della Grande Guerra, ogni giorno alle dodici i rintocchi delle campane ripropongono le note della Leggenda del Piave di Giovanni Ermete Gaeta in arte E.A. Mario: un vero e proprio inno nato da un grande cuore napoletano e destinato a tutti quei soldati che, da sud a nord, si sono immolati per l’Italia sulle sponde del Sacro Fiume.
(Autore: Marcello Marzani)
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