Nell’immaginario collettivo la figura di Antonio Ligabue viene associata alle golene del Po e gli argini boscosi del Grande Fiume nei quali il pittore si rifugiava come un animale selvatico in fuga dalla malvagità umana. Luoghi nei quali Toni vagava alla ricerca di un contatto intimo con la natura, unico antidoto alla sua perenne inquietudine.
Della storia di Ligabue, assieme al paesaggio padano, fanno parte altri due spazi geografici ben definiti: la Svizzera, dove nacque e trascorse la prima parte della vita, e il Veneto. La mamma di Antonio, Maria Elisabetta Costa, era infatti originaria di Cencenighe Agordino, piccolo comune nel cuore delle Dolomiti Bellunesi, noto per l’abilità dei suoi scalpellini. Elisabetta fu una donna sfortunata, protagonista di un’esistenza dolorosa strappata all’oblio dalla sensibilità di Renato Martinotti, autore del romanzo “La campana di Marbach” e dalle accurate ricerche dello storico dell’arte Marzio Dell’Acqua. Analizzare le origini venete dell’artista è un mezzo per penetrare lo sguardo malinconico e sfuggente di Toni, soprannominato “al Mat” per le stranezze, “al Tedesch” per le origini e paragonato a Van Gogh per il talento.
Alla fine dell’Ottocento, in Italia, la miseria imperversava un po’ ovunque. In luoghi di montagna come Cencenighe era difficoltoso non solo vivere, ma addirittura sopravvivere: alla fame, alle malattie, alle avversità di una natura selvaggia e impietosa. È in questo contesto che il 5 novembre 1871 venne alla luce Maria Elisabetta. I suoi genitori, abitanti nella frazione di Vila (Villagrande) erano Mattia, muratore, e Maria Bogo che il ruvido linguaggio dell’epoca qualifica come “villica”. Il padre ritardò di molto la denuncia della nascita della bimba poiché si trovava in Tirolo per lavoro. Rimasta orfana di madre a tre anni, per non gravare sul magro bilancio familiare presto Maria Elisabetta andò a ingrossare le fila delle “ciòdete” e dei “ciòdeti”: ragazzini di entrambi i sessi che in primavera, come stormi di rondini, lasciavano le loro povere case alla volta del Trentino e dell’Alto Adige per fare i braccianti agricoli e le domestiche, in una condizione servile spesso umiliante. Vestiti miseramente, malnutriti e spaesati, calzavano dei rustici zoccoli (le galòze) con la suola tempestata di chiodi, particolare da cui probabilmente discende il loro appellativo popolare.
La futura madre di Toni Ligabue si dovette scontrare con la realtà di una famiglia che oggi definiremmo allargata (il padre si risposò più volte ed ebbe altri figli), dedita a una vita randagia, fatta di continui spostamenti e occupazioni occasionali. Un’esistenza nella quale chi non produceva era semplicemente un peso.
Dopo alcune stagioni trascorse da “ciòda” in quello che allora era territorio austroungarico, la ventottenne Maria Elisabetta approdò nella Svizzera tedesca, a Frauenfeld, Canton Turgovia ove fu assunta come operaia in una fabbrica tessile. Era incinta e a distanza di pochi mesi, il 18 dicembre 1899 alle 21.40, dette alla luce Antonio che all’anagrafe elvetica fu iscritto come figlio di Elisabeth Costa e di padre ignoto. Il parto avvenne alla Frauenklinik di Zurigo, la più adatta ad accogliere ragazze madri straniere, indigenti e, come lei, sulla soglia della disperazione.
Fu allora che Maria Elisabetta si legò a un uomo, anch’egli emigrante e operaio nella stessa fabbrica: Bonfiglio Antonio Domenico Laccabue, classe 1867 originario di Pieve Saliceto, una minuscola frazione della bassa reggiana nella quale Benito Mussolini debuttò come maestro elementare prima di trasferirsi in Svizzera.
Bonfiglio, padre sarto e madre cucitrice, a dispetto del nome rassicurante era un poco di buono, ciò nonostante convolò a nozze con Elisabetta il 18 gennaio 1901. Se non fu amore, è ragionevole credere che il matrimonio rappresentò per Elisabetta il disperato tentativo di aggrapparsi all’unico individuo disposto a riconoscere il piccolo Antonio. Fu così che il 10 marzo dello stesso anno, Toni divenne ufficialmente Antonio Laccabue, cittadino di Gualtieri. Bonfiglio non accettò mai quel neonato non suo e ben presto convinse la povera Maria Elisabetta, già incinta di una seconda creatura, a dare Antonio in affidamento per dedicarsi al vero erede, Bonfiglio junior, nato il 21 agosto 1901. Antonio, allontanato dalla madre naturale all’età di un anno, fu accolto da una coppia matura, i Göbel: Johannes Valentin, quarantasettenne tedesco, ed Elisabeth Hauselmann detta Elie, di tre anni più giovane, svizzera.
La vita purtroppo aveva in serbo molte altre prove dolorose per la sfortunata ragazza bellunese. Provata nel fisico e nella mente, costretta a cambiare più volte domicilio per star dietro a un marito balordo, Maria Elisabetta divenne madre altre tre volte: Amedeo nacque il 18 dicembre 1902, Ottone il 4 dicembre 1904 e Maria Elisabetta (il suo stesso nome) il 31 febbraio 1907. Nelle sue condizioni la maternità doveva essere più una sventura che una gioia: perennemente alla ricerca di qualcosa da mettere nel piatto, di un pezzo di legna per rendere più sopportabili le lunghe notti invernali, costretta a vivere in dimore fatiscenti e in indecente promiscuità con altri poveri diavoli, Maria Elisabetta cedette alle lusinghe dell’alcol o quantomeno vi ricorse per placare i morsi della fame e i brividi di freddo. Fu in questa drammatica situazione che, nel 1905, un’infezione alle vie respiratorie aggravata dalla malnutrizione e dall’igiene precaria si portò via Ottone ancora neonato.
Bonfiglio nel frattempo cambiò più volte occupazione: muratore, operaio in una fabbrica di laterizi, venditore ambulante di salumi, frutta e verdura. Tutti lavori provvisori che non portarono alcun sollievo a una famiglia in rovina. Nel frattempo il piccolo Antonio Laccabue, a casa dei Göbel, manifestava sintomi sempre più evidenti di un allarmante disagio mentale, peggiorato dal rachitismo e dal gozzo sempre più evidente. Isolamento, ribellione, violenza contro sé stesso erano all’ordine del giorno e contro di esse nulla poterono l’alternanza fra severità e comprensione della famiglia e degli educatori di Tablat, Marbach e San Gallo. Un’esistenza che avrebbe condannato Toni a vivere ai margini di una società che non lo accettava, al massimo lo tollerava, e che lui stesso ripudiava. A quietarlo erano solamente le visite al museo zoologico, le figurine colorate con gli animali e le carezze ossessive ai conigli, i suoi esserini prediletti.
Se la morte può essere una sorta di liberazione da un inferno di privazioni e umiliazioni quotidiane, per Maria Elisabetta e i suoi tre bimbi ciò avvenne in circostanze oscure e tristissime. Nelle diverse biografie dedicate al pittore, la scomparsa della madre naturale e dei fratellastri viene liquidata con una frase algida: decesso per intossicazione alimentare dovuta all’ingestione di carne guasta.
Un dramma consumatosi nella notte fra venerdì 24 e sabato 25 gennaio 1913 a Widnau (Cantone di San Gallo) e sul quale, per qualche giorno, aleggiò il sospetto di un omicidio plurimo. I corpicini sporchi e denutriti di Bonfiglio junior, Amedeo e della piccola Maria Elisabetta furono rinvenuti in una camera fatiscente a ridosso di una porcilaia; ai soccorritori la madre apparve stranamente distaccata e apatica tanto che i sintomi dell’avvelenamento furono inizialmente scambiati con quelli dell’ubriachezza. A uccidere fu del grasso imputridito usato per condire la pasta, un cibo tossico fatale anche per la stessa Maria Elisabetta, spirata un mese dopo all’ospedale cantonale di San Gallo. Bonfiglio Laccabue, inizialmente sospettato di uxoricidio fu presto scagionato e rispedito in Italia con un foglio di via. Antonio Ligabue, non è chiaro da chi e quando fu informato della tragedia, da allora covò un acceso rancore nei confronti del patrigno: un odio culminato nella ferma decisione di non riallacciare mai più alcun rapporto e di mutare il proprio cognome da Laccabue in Ligabue.
Bonfiglio Laccabue si spense nel ricovero Carri, a Gualtieri, nel 1949; lo stesso ospizio nel quale fu più volte internato Antonio Ligabue e nel quale l’artista morì il 27 maggio 1965 per i postumi di un’emiparesi. Si racconta che Toni ricevette la notizia della scomparsa del patrigno mentre era intento a osservare delle bestie avviate al macello. L’artista reagì con indifferenza e si rifiutò categoricamente di far visita alla camera mortuaria. Preferì concentrarsi sugli animali e sul loro cruento destino. Esseri innocenti per i quali Antonio provava empatia e un dolore nemmeno lontanamente paragonabile a quello per la scomparsa di un padre che non ebbe mai.
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