“Scendiamo al Piave, traversiamo la passerella e continuiamo la via a piedi – racconta il 7 novembre 1918 la valdobbiadenese Caterina Arrigoni – Possiamo così misurare l’enormità del disastro: Vidor, Bigolino sono distrutti. Macerie, ruderi, nulla più. Campi sconvolti, alberi stroncati, viti divelte, rotaie contorte a S, a circolo perfetto, desolazione, orrore. Trincee, camminamenti, fortini dissimulati sotto il terreno: bombe inesplose, proiettili di diversi e grossissimi calibri”.
Uno scenario da apocalisse si presenta agli occhi dei profughi di ritorno a casa, partono dal Vittoriese e dal Friuli con tante speranze per un futuro migliore, arrivano nei loro paesi e rimangono senza parole. Non c’è più nulla, fanno fatica a riconoscere ogni cosa, sono spaesati dalla distruzione che li circonda, infiniti sogni infranti.
“Come ridire l’impressione provata in Piazza? – prosegue Caterina quando arriva nel centro di Valdobbiadene – Eppure da un anno la temevo e l’intuivo, ma la realtà ha superato le più tetre visioni: solo gli scheletri più o meno diroccati delle case ricordano il passato ed appaiono quasi un macabro scenario. Di casa nostra più nulla, nulla su cui fondare un’illusione. Mi arrampico penosamente tra le macerie e, con angoscia, cerco di rammentarmi a quale camera appartenessero le rovine che ho davanti. L’orto? Non una pianta, non una vite, non un rosaio. Terreno battuto, deserto assoluto, segnato da bombe inesplose e da buche profonde”.
Una scenario disastroso, invivibile per chiunque, ma i profughi del Piave resistono, tenaci come non mai, non vogliono più abbandonare le loro case, anche a costo di dormire all’aperto. Meglio soffrire a casa propria che essere un peso come erano stati per undici mesi durante l’an de la fan 1917-1918. Meglio vivere tra le trincee, in baracche o tende gelide piuttosto di dormire nel caldo inospitale di terre poco generose.
Le parole di Caterina Arrigoni, ancora una volta, sono esemplari: “Iniziava così quella terribile invernata, passata da più di millecinquecento persone sotto rovine malsicure, senza ripari, senza vesti e coperte. Gli aiuti governativi – le baracche, ecc – vennero molti mesi dopo. Intanto le generose iniziative di pochi furono continuamente intralciate dalle miserie burocratiche”.
Altrettanto dure le riflessioni del commissario prefettizio di San Pietro di Barbozza, datate 27 dicembre 1919, più di un anno dopo la vittoria: “Le case nella maggior parte distrutte, i terreni coltivabili sconvolti dalle granate, la vigna ridotta nello stato il più deplorevole, mancanza assoluta di bestiame, capo primo dal quale questa popolazione traeva il suo sostentamento, mancanza di fondi per acquistarne, bisogno di cibi nutrienti e sani per poter ristabilire la salute malferma di molti che dall’esilio ritornarono in massima parte colpiti dalla malaria (febbre spagnola, ndr)”.
Non fu facile risollevarsi dalla Prima guerra mondiale. La vittoria italiana fu l’inizio della fine, la conquista delle terre irredente di Trento e Trieste, ma un grande passo indietro dal punto di umano. Alla fine, attorno alla metà degli anni Venti, i profughi si curarono l’un l’altro le profonde ferite e risorsero più forti di prima senza chiedere aiuto a nessuno. Per aspera ad astra (attraverso le difficoltà si giunge alle stelle), scriveva Cicerone.
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(Fonte: Luca Nardi © Qdpnews.it).
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