Mi ha sempre fatto pensare molto un testo scritto Natalino Valentini nell’introduzione di un libro di anni orsono dedicato a profili di memoria di otto protagonisti della vita pubblica del nostro Paese. “L’attenzione, come hanno dimostrato grandi pensatrici come Simone Weil e Maria Zambrano – scrive Valentini – è essenzialmente una categoria spirituale che dono senso all’azione e alla prassi … soltanto un’azione nata dall’attesa interiore, dalla persuasione, dall’attenzione, sfugge all’approssimazione nella quale è l’origine di ogni deriva”. In qualche modo, egli certificava in tempi non sospetti una caratteristica problematica della realtà attuale, che il professor Vittorino Andreoli – arrivato nei giorni scorsi a Tarzo all’auditorium di Banca Prealpi San Biagio per un evento pubblico dedicato al libro – ha messo nero su bianco nel suo più recente volume intitolato proprio “La società del pressappoco.
La malattia dell’uomo moderno” (Solferino). L’approssimazione come inizio di ogni deriva: ne parlava già tempo addietro lo stesso cardinale Gianfranco Ravasi, nel suo breviario laico “Le parole e i giorni” (Mondadori), laddove scriveva che oggi “sembra prevalere in molti campi l’approssimazione, il pressapochismo, la faciloneria, pronti poi a incolpare gli altri o la società se cadiamo miseramente ….Siamo immersi infatti in un tempo che ha come insegna l’approssimazione e la superficialità … si è sempre più sbadati, disinteressati, sventati e imprudenti … Nell’agire e nel parlare la ponderatezza è un vocabolo rarosia nell’uso linguistico comune, sia nel comportamento pratico …”.
Ebbene, si tratta di un’inclinazione, un approccio, uno stile sempre più diffusi in una stagione già complicata e difficile per tante ragioni, che rischiano di ferire e compromettere convincimenti e dinamiche che dovrebbero invece favorire uno sviluppo ordinato e coerente dei percorsi esistenziali e delle relazioni individuali e sociali.
Sciatteria, impreparazione, banalità, superficialità sembrano essere il carattere distintivo di tante prese di posizione e discussioni nei nostri ambienti di vita, di lavoro, di attività sociale. E’ come se facessero rumore e suscitassero adesione principalmente le cose più forti, gridate, semplicistiche e irrazionali, di gran moda in particolare in ambito social, senza che possa esistere la preoccupazione di un approfondimento, di una valutazione logica, di un sano interrogarsi rispetto a quanto viene proposto. Sembrano non importare le fonti, e che tutto, ma proprio tutto, abbia comunque valore, dignità, ragione, riconoscibilità. “Il termine francese “à peu près” in italiano si può associare anche a espressioni come “all’incirca, suppergiù” – scrive Andreoli – che riportano a “superficialità”, aggiungendovi una colorazione dunque persino morale”.
E il noto psichiatra di fama internazionale aggiunge: “I due termini “pressappoco” e “precisione” sono oggi poco usati, se non quasi scomparsi dal linguaggio corrente, mentre l’atmosfera dominante appare regredita e sembra aver sostituito persino quel “pressappoco” con espressioni come “quel che vuoi” , “ciò che ti pare”, quasi che il conoscere si fosse fermato a una impressione”. E’ una questione seria, dunque, sul piano dei contenuti e sul piano del metodo.
Da un lato passa l’idea che ogni valutazione e questione anche importante sul piano scientifico abbia comunque diritto di cittadinanza: tutto è opinabile, non vi sono certezze, per cui si distribuiscono patenti di legittimità anche alle posizioni più irrilevanti e contraddittorie, non validate dalla comunità di coloro che si dedicano stabilmente con competenza al progresso dell’umanità in tutti i suoi settori. Dall’altro lato, l’approssimazione, la mancanza di cura, un certo disordine, un pressapochismo eretto a sistema, sul piano della forma e della stessa comunicazione, assumono un rilievo non trascurabile e certamente negativo sul piano dei rapporti fra le persone, a partire dal livello di studio e di lavoro. E’ come se ormai si fosse diffusa l’idea che non serve essere preparati, puntuali, concreti, efficienti, abituati all’ordine e alla disciplina come espressione del rispetto verso se stessi e gli altri, ambiente compreso.
Non occorre: basta impegnarsi un po’, in maniera approssimativa e superficiale, perché il rigore, lo scrupolo, l’avvedutezza e la razionalità appartengono ai tempi passati, e oggi basta mettere in campo lo sforzo minimo, di fatto non contestabile perché non ci sono più criteri riconosciuti e accolti per realizzare al meglio gli impegni assunti. La forma sciatta e banale, anche nell’aspetto fisico? Del tutto ininfluente, perché con la critica si rischia di contestare la creatività del soggetto. La puntualità? Troppo onerosa, perché c’è sempre tempo. Le mancate risposte a precise domande? Non era possibile fare altro, abbiamo cercato di dare seguito in qualche modo, con “meritevole” approssimazione. Gli errori di grammatica nelle comunicazioni, anche importanti? Ormai non facciamo più caso a questi fattori, perché è fondamentale la comprensione e ormai la lingua è cambiata grazie alla velocità dei social.
Prestare ascolto mentre le persone parlano e affidano in pubblico messaggi di valore? Non importa, tanto “più o meno” queste cose le abbiamo già sentite e possiamo ritrovarle in altre sedi e in altri modi. Traducendo questa tipologia di interrogativi e di risposte pressappochiste: una società che non dà più valore a principi fondanti e a comportamenti virtuosi perché rispettosi e condivisibili si mette in una condizione di deriva, come detto sopra, e si allontana dall’approdo alle certezze che invece danno garanzie, sicurezze e stabilità all’esistenza collettiva e al bene comune.
Ecco, serve “vivere con attenzione”, nel cuore, nello spirito e nella mente, per trovare la giusta dimensione e l’equilibrio delle opere e dei giorni di un nuovo umanesimo e di una società migliore.
(Autore: Redazione Qdpnews.it)
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