“I giovani sono come spugne: assorbono, assorbono e poi, col tempo, rilasciano ciò che hanno appreso”. A Davide Oldani quella frase, pronunciata da Gualtiero Marchesi nei suoi primi giorni in una delle cucine più importanti al mondo, è rimasta impressa nella mente.
E se oggi, dopo quarant’anni tra i fornelli – “un lavoro che un tempo chiamavo missione, ma che ora sto cercando di trasformare in passione” – è diventato un punto di riferimento nel panorama gastronomico, lo deve anche agli errori commessi da ragazzo. Come quando, da promettente calciatore (“a 16 anni giocavo in C2, ero praticamente un professionista”, racconta), vide sfumare la carriera per un infortunio durante un torneo scolastico al quale il padre gli aveva proibito di partecipare.
“Nascosi le scarpe in fondo allo zaino e andai al campo”, ha raccontato ieri, ospite della Latteria di Soligo all’Istituto Alberghiero “Beltrame” di Vittorio Veneto. Un’uscita scomposta del portiere avversario mise fine al sogno e spezzò, insieme alla sua carriera, anche tibia e perone del giovane Oldani. “Quando mio padre arrivò in ospedale e vide che tutto sommato stavo bene, mi disse: o ti trovi un lavoro, o ti spezzo anche l’altra gamba”.
Fu quella una classica Sliding Doors che diede inizio alla sua carriera da chef. In pochi anni imparò dai migliori. Dopo Marchesi, si trasferì a Londra, dove incontrò un giovane collega: “Lui faceva i pesci, io le carni”. Si chiamava Gordon Ramsay. Poi ancora in Francia, da Ducasse e Pierre Hermé – il re dei macarons – dove affinò la pasticceria.
Oggi Oldani è uno degli chef più importanti d’Italia, ma nella mente conserva gli insegnamenti dei maestri e il modo in cui lo hanno accolto. È convinto che i giovani vadano accompagnati, come farebbe un bravo autista con i propri passeggeri. È l’anima gentile e rivoluzionaria della cucina pop (“all’inizio facevo un menù pranzo a meno di 12 euro”), dove nei piatti convivono armonie sorprendenti, ciò che lui definisce “l’equilibrio dei contrasti”. Il suo ristorante D’O, a Cornaredo, ha conquistato due stelle Michelin.


Chef, lei si è definito una persona che vuole far succedere le cose e che non cerca il successo. Cosa intende?
“Se vuoi far succedere delle cose, ti impegni per farle succedere, è la gente che poi dirà cosa hai fatto, che parlerà del tuo successo”.
Ma non è che lei è un po’ fuori dal coro, in un momento in cui anche in cucina bisogna far successo? Magari con MasterChef o cose di questo genere?
“Tutto quello che è mediatico va bene, perché alla fine ci aiuta a capire di più: dal prodotto, all’atteggiamento. Poi uno può guardare o non guardare, può ascoltare o non ascoltare. Può mangiare bene se usa un po’ di tempo suo per andare a comprare buoni ingredienti, senza dover parlare male di un settore che, secondo me, va alla grande”.
Quando si passa da missione a passione? Lei prima ha detto che ora lavora principalmente per la seconda.
“Una volta facevi la missione, e in più uno doveva avere la passione. Adesso, con i giovani d’oggi, secondo me c’è tanta passione. Poi, se uno vuole farsela diventare una missione lo può fare, ma non che uno debba essere per forza missionario per fare questo mestiere”.
Se dico “cucina pop”, cosa dico?
“Pop è un modo comunicativo veloce, che appartiene a tutti, a tanti. Però il cibo, alla fine, serve a tutti. Per cui, il pop arriva dal fatto di essere concepito per penetrare le persone, in maniera salutistica oltre che gustativa”.
Chiedere ai ragazzi di essere educati: non è terribile avere questa aspettativa? Non dovrebbe essere un prerequisito per restare al mondo?
“No, non chiedo mai ai ragazzi di essere educati. Mai chiesto e mai lo farò. È solo un relazionarsi, perché uno capisce se è educato quando ti presenti. Non c’è bisogno di chiedere l’educazione. Mai chiesta, ma neanche tantomeno ai ragazzi. L’educazione ce l’hai, ci metti del tuo, ce l’hai perché sei stato educato, poi magari diventi ineducato a un certo punto della vita, non maleducato”.
C’è anche però una questione di regole: ad esempio la divisa, che lei ha preteso per collaborare con l’Istituto alberghiero della sua zona.
“Certo che sì. Poi alla fine è stato un punto a favore delle famiglie, non è stato per Davide Oldani. Mi piace molto l’idea di ragionare per far sì che il risultato venga portato a casa da tutti, non da uno. E la divisa ci ha aiutato a far spendere meno soldi alle famiglie”.
Se uno fa un lavoro è giusto che venga retribuito. È il suo claim?
“Sì, questo è il mio claim. E il fornitore, siccome mette del suo per poterti aiutare a fare della buona cucina, è giusto che venga retribuito nella maniera corretta. Ma queste sono le regole”.
Il messaggio che lei ha ripetuto oggi è abolire i sogni e guardare i desideri?
“Certo, sì. Alla mia età, poi magari i giovani se vogliono sognare, liberi. Però desiderare ti impegna un po’ di più, ti dà un po’ più di energia”.
Chi saranno gli chef del futuro?
“Quelli con la passione, quelli con l’intuito anche, di sapere che si sta cambiando. Per cui ci saranno quelli che fra vent’anni saranno grandi chef, che ora stanno iniziando, che affronteranno la quarta repubblica della cucina. Ci sarà un cambio totale anche nella parte nutrizionale. Sempre di più su prodotti di qualità. Quelli di non qualità verranno sempre più aboliti, con l’obiettivo di nutrire bene le persone”.
Come si fa a mantenere la passione così alta?
“Si cerca di farlo, rimanendo affamati. Si cerca ogni momento di venirne fuori con qualcosa di nuovo. Anche con l’aiuto di qualche social, guardando, ma senza farsi tediare più di tanto. E ascoltando le persone. Soprattutto parlando, ma parlando meno e ascoltando di più”.
La pandemia l’ha messa in crisi o le ha dato un’opportunità?
“Beh, se siamo vivi, è stata un’opportunità. Tutti noi che siamo qua siamo stati veramente baciati dalla fortuna di essere vivi. Abbiamo preso la palla al balzo, perché ognuno di noi, se chiediamo a chiunque qua, ha un aneddoto, perché si è rinato dopo la pandemia”.
Il suo qual è?
“È quello di aver continuato il coinvolgimento dei ragazzi con Olmo, con il borgo e con il nuovo laboratorio. E poi quello di aver passato più tempo con mia figlia”.
(Autore: Simone Masetto)
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