Soddisfazione nonostante la modalità online per l’appuntamento di ieri sera, venerdì 23 ottobre, al museo del baco da seta di Vittorio Veneto per scoprire i segreti delle filande.
Il progetto curato dalla cooperativa sociale Terra Fertile in sinergia con l’amministrazione e il museo stesso, puntava a far conoscere agli ospiti della serata gli aspetti più curiosi del modo della seribachicoltura grazie agli interventi dell’antropologa Elisa Bellato, che ha portato avanti le prime fasi di allestimento del museo ed è specializzata nella storia del lavoro delle donne in edifici come le filande.
Il museo del baco da seta nasce come raccolta di un’esperienza reale di vita, di condivisione e scambio di difficoltà e fragilità. È per questo che la dottoressa Bellato ha messo in guardia gli ospiti online: “Intendo raccontare il museo con accenni storici e proiettando immagini a volte crude, che però rispecchiano la realtà del periodo“.
L’antropologa spiega che negli anni ’70, quando ormai la seribachicoltura aveva perso importanza nel mondo contadino, una serie di persone non considerava accettabile la fine di una realtà complessa così importante. Non era possibile semplicemente chiudere gli stabilimenti, bisognava fissare la memoria, e così hanno donato gli strumenti e gli oggetti più rappresentativi al museo.
Oltre alle dimostrazioni tangibili della fine di un’epoca, la dottoressa Bellato ha precisato che sono le testimonianze dirette a far catapultare l’ospite del museo nel vero mondo della bachicoltura: è cosi che ha raccolto una serie di interviste in un progetto ancora in attivo, che risvegliano ricordi dimenticati ed emozioni lontane.
Per capire quanto cruciali fossero i bachi, basti pensare che a fine ‘800 si pubblicavano bollettini settimanali di sericoltura. Un documento conservato al museo vittoriese dimostra che nel 1886 il sindaco doveva persino riferire l’andamento della bachicoltura agli organi nazionali. Molte chiavi di lettura di questo periodo passano attraverso le testimonianze delle donne, tutte accomunate dal luogo centrale della loro vita lavorativa: la filanda.
Carmelo dalla Torre, del 1928 va indietro con i ricordi fino a commentare: “L’allevamento era lasciato alla responsabilità della donna, era mia mamma a prendersi cura dei bachi, si stava su anche la notte a seguirli nel periodo più delicato di maggio. Lei andava a letto alle 11 e noi fratelli stavamo su fino alle 2, poi ci si dava il cambio. In gioco c’era troppo“.
Lina Zanchettin, nata nel 1925, racconta il rapporto con l’autorità, ricordando un padrone severo: “Hai voglia di lavorare? Altrimenti quella è la porta” le dissero. Aver voglia di lavorare infatti determinava l’essere una brava persona ma spesso le donne restavano in filanda fino al matrimonio o al primo figlio, poi venivano assorbite dalle faccende casalinghe.
“Volevo tanto lavorare in filanda ma la suocera non voleva”, ricorda ricorda un’altra operaia. Angela Pizzinato del 1940, ricorda il suo piccolo allevamento, i bachi sul granaio, il grande lavoro: “Quando cambiavano il letto ai bachi io ne rubavo un paio e li allevavo per conto mio: vendendo il bozzolo prendevo un soldo“.
Si formava così l’autonomia dei bambini nel dopoguerra, interpretando il lavoro come gioco. Oltre alla fatica però c’era la fame, un ricordo indelebile per chi l’ha sofferta, come Domenico Dal Cin del 1923, che confessa con un sorriso: “Andavamo volentieri a sbozzolare perché ci davano da mangiare la carne, il cotechino, l’ossacollo. Era cibo che a casa lo vedevamo solo nei sogni“.
A segnare la fine della bachicoltura sono gli abiti in nylon. Il materiale sintetico vince la competizione con la seta italiana e soprattutto con i costi dell’Asia. Gli stessi contadini quando potevano lasciavano, perché ere una lavoro troppo faticoso: “Si andava avanti con la fede, con la speranza, ma guardare indietro mi fa un po’ male” dice Mario Peruch, del 1938.
Sebastiano Baccichetti fa parte di una delle famiglie che hanno continuato fino alla fine, nel 1972 e con il suo racconto mette in luce il cambio di approccio del mondo contadino: i sacrifici erano scontati fino a un certo periodo, poi non valevano più la pena: “Prendevamo circa 800 lire al chilo, la resa era troppo misera”.
Attraverso queste testimonianze, nonostante il pubblico fosse davanti a uno schermo e non di fronte a persone reali, la realtà della bachicoltura ha preso forma in tutta la sua complessità e ora l’invito dell’amministrazione così come del museo stesso è di toccare con mano la storia attraverso una visita di persona agli spazi museali.
(Fonte: Alice Zaccaron © Qdpnews.it).
(Foto: archivio Qdpnews.it).
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