Qualcuno l’ha definito “il mestiere più antico del mondo”, ma in realtà la prostituzione è venuta dopo le diverse occupazioni legate alla caccia, alla pesca, all’agricoltura e all’artigianato. Fatta questa premessa è altrettanto vero che del meretricio (dal latino merere, guadagnare) si hanno notizie già in età antica: nella Grecia classica si prostituivano uomini, donne e adolescenti; a Roma gli incontri a pagamento avvenivano nei lupanari, celebri quelli di Pompei, decorati con pitture erotiche molto esplicite.
Sebbene in ogni continente siano esistite forme di “prostituzione sacra” tollerate o addirittura incoraggiate dalla religione, la prostituta è universalmente considerata una peccatrice priva di morale o, nella migliore delle ipotesi, la vittima di un bieco sistema di sfruttamento. Il termine prostituta proviene dal latino prostituere e indica colei che viene “posta davanti” al postribolo, quella che “sta in piedi” sul marciapiede, pronta a concedersi in cambio di un corrispettivo solitamente in denaro.
Luoghi, atteggiamenti e circostanze propri del meretricio hanno influenzato il linguaggio antico e moderno nel quale eufemismi quali passeggiatrice, lucciola, squillo, escort attenuano la crudezza di termini decisamente più volgari. Una regola che vale anche per i “prostituti” di sesso maschile definiti accompagnatori, sex-workers (lavoratori del sesso), rent-boys (ragazzi in affitto), gigolò. Un vero e proprio dizionario del vizio nel quale i profittatori dei corpi altrui sono i lenoni, i ruffiani, i magnaccia, i bombardini, termine quest’ultimo che non ha niente a che vedere con lo strumento musicale o con il liquore a base di zabaione somministrato nei rifugi alpini, ma indica i cosiddetti “protettori”.
A Venezia, come del resto in tutte le grandi città mercantili e portuali della nostra Penisola, il meretricio ha trovato le migliori condizioni per prosperare, debolmente osteggiato da provvedimenti transitori e inadeguati a debellare un commercio così lucroso che nemmeno la legge Merlin del 1958 è riuscita a sradicare definitivamente.
Lo storico Giuseppe Tassini, a proposito del meretricio nella Serenissima, racconta un gustoso aneddoto: alcuni secoli orsono le autorità veneziane, dopo aver messo al bando la prostituzione, incapaci di sedare i conseguenti tumulti furono costrette a richiamare in città le lucciole che fecero ritorno a Rialto a bordo di un naviglio che dal Seicento fu ribattezzato “traghetto dei ruffiani” o “del buso” (buco), chiara allusione alla “meretricia brigata”.
Confinate nella zona di Rialto sin dal Trecento, molte meretrici trovarono alloggio in un gruppo di case dette “il Castelletto” per via del rigore quasi militaresco al quale erano sottoposte: sorvegliate da sei guardiani, diffidate dall’uscire di casa durante le ricorrenze religiose, le meretrici subivano il dominio delle matrone con le quali spartivano i guadagni a fine mese. Le regole stringenti non impedirono il progressivo esodo di alcune ragazze che, dall’opprimente residenza, si spostarono altrove.
Una legge del 1468, emanata all’indomani di una serie di risse a mano armata, vietò alle prostitute di eleggere il domicilio ed esercitare il meretricio attorno a San Samuele, pena una multa di lire dieci e venticinque scudisciate. Alle passeggiatrici fu proibito girare in barca, percorrere il Canal Grande, abbigliarsi con il manto come le altre donne (il faziol bianco), ornarsi di ori, gioie, perle buone o finte, addirittura testimoniare nei processi penali.
Vi fu però un momento in cui le prostitute veneziane tornarono utili nella crociata contro la sodomia e che alle donnine fu imposto di accendere lanterne, affacciarsi e sostare sull’uscio per attirare i clienti distogliendoli da altre pratiche indecenti.
L’altalenante approccio delle autorità di polizia nei confronti della prostituzione probabilmente incoraggiò molte “ragazze” e alcune ex passeggiatrici oramai in disarmo a migrare in altri rioni della città, fra i quali il quartiere delle “Carampane” da ca’ Rampani (casa dei Rampani), famiglia patrizia di origine ravennate che in quell’area possedeva diversi immobili.
La massiccia presenza di lucciole, parte delle quali anziane, ha verosimilmente fatto sì che col tempo carampana sia divenuto sinonimo di donna di facili costumi, sguaiata, volgare, trascurata e dall’aspetto sgradevole. Carampana è anche un modo rude per dare della vecchia rimbambita a una persona non più nel fiore degli anni e un po’ svampita.
Se l’epiteto carampana suona come l’ennesimo insulto a una schiera di povere infelici sovente costrette a vendere il loro corpo per sopravvivere, è altrettanto vero che la figura della prostituta, nelle sue diverse accezioni, ha affascinato generazioni di artisti. La Traviata di Giuseppe Verdi, i dipinti di Toulouse-Lautrec, le interpretazioni di Anna Magnani, i versi di Lucio Dalla, Francesco Guccini e Renato Zero sono soltanto alcuni esempi. Fabrizio De André, nel suo capolavoro “Via del Campo”, riferendosi alla “graziosa che tutta la notte sta sulla soglia” e “a tutti vende la stessa rosa” afferma che: “Dai diamanti non nasce niente. Dal letame nascono i fior”. Infine pare che Alain Delon, scomparso recentemente, offrisse champagne alle lucciole che incontrava per strada. Lo faceva “perché nessuna donna aveva il loro cuore”.
(Autore: Marcello Marzani)
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