Quando a sbagliare è il boia

Prima dell’avvento delle armi da fuoco l’impiccagione, assieme alla decapitazione e al rogo, è stata uno dei metodi di esecuzione più comuni. Semplice ed economica, non richiedeva attrezzature particolarmente complesse o costose e si dimostrava efficace nella gran parte dei casi. Ancora oggi oltre cinquanta paesi nei quali vige la pena capitale si affidano a questo metodo.

Il capestro, termine col quale si indicano tanto la corda quanto la forca vera e propria, nella macabra classifica dei supplizi capitali occupa uno dei gradini più bassi sotto il profilo del prestigio. Terminare la propria esistenza con il collo stretto dal nodo scorsoio spesso rappresentava l’estremo segno di disprezzo della comunità nei confronti del condannato appartenente alle classi sociali inferiori, a gruppi nazionali avversari, o colpevole di un crimine particolarmente infamante. Sandro Iacometti e Adalberto Signore, autori di un interessante saggio sulla pena di morte nel mondo, ricordano come un proverbio francese recitasse: “L’ascia ai nobili, il capestro ai villani”.

Capestro originale esposto al Museo del Crimine di Washington D.C.

Curiosamente nella Roma antica l’impiccagione non era contemplata fra le tecniche per le esecuzioni capitali. Eva Cantarella, studiosa delle società antiche, nell’analizzare origini e funzioni della pena di morte in Grecia e a Roma, spiega come fra i discendenti di Romolo e Remo esistesse un tabù legato agli “alberi infelici”, gli infelices arbores, piante improduttive o capaci di generare solo frutti scuri o immangiabili come il fico nero, il rovo, l’agrifoglio o l’olivastro; gli alberi infelici appartenevano alle divinità infernali e come tali erano considerati portatori di malaugurio. Anche un arbor felix poteva diventare infelix se colpito da una saetta o scelto da un essere umano per mettere fine ai propri giorni: eventi che relegavano sia l’albero che il territorio circostante a una condizione sinistra e funesta.

In tempi più recenti, parliamo dell’Europa del XIX secolo, l’impiccagione non solo rappresentava uno spettacolo raccapricciante ma altrettanto entusiasmante, ma alimentava usanze e superstizioni incredibili, come la contesa per aggiudicarsi un pezzetto della corda usata nel supplizio ritenuta un amuleto con straordinari poteri taumaturgici. Qualcosa di simile accadde a Trento all’indomani dell’impiccagione di Cesare Battisti avvenuta il 12 luglio del 1916 nella fossa del castello del Buonconsiglio: il capestro utilizzato per giustiziare il patriota trentino pare sia divenuto una sorta di macabro souvenir talmente ambito da indurre qualche individuo senza scrupoli a metterne in circolazione alcuni scampoli falsi.  

Apparentemente banale nella sua atrocità, l’impiccagione richiede esperienza e abilità, qualità che hanno contribuito a trasformare alcuni boia in autentiche leggende circondate dalla curiosità popolare. Giovanni Battista Bugatti, soprannominato Mastro Titta, al servizio dello Stato Pontificio, fra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento eseguì oltre 500 pene capitali impiccando, decapitando, mazzuolando e squartando con tale lena da ritagliarsi un posto d’onore nell’immaginario collettivo. Dello statunitense Georges Maledon, detto “The Prince of Hangmen”, attivo in Arkansas alla fine dell’Ottocento, si dice che avesse una cura maniacale per i propri attrezzi del mestiere e che sottoponesse le corde di canapa a speciali trattamenti a base di olio vegetale per garantirne durata ed elasticità. Infine, occorre ricordare Henry, Thomas e Albert Pierrepoint, membri di una dinastia di boia inglesi che in pieno Novecento ha eseguito centinaia di pene capitali dimostrando di padroneggiare la tecnica del long drop: studiando con cura il peso della vittima e la lunghezza del capestro si provocava uno strattone sufficientemente violento a uccidere all’istante, evitando al malcapitato inutili sofferenze.

Questa “abilità” mancò decisamente al carnefice che il 3 luglio del 1713 fu incaricato di giustiziare il sedicenne Andrea Codoni, originario delle Calloneghe, oggi frazione del comune bellunese di Rocca Pietore. Il ragazzo, che a Venezia lavorava come garzone di un caregheta (il seggiolaio) a causa di un diverbio con una domestica fu licenziato; per vendicarsi uccise la donna e derubò il principale. Condannato all’impiccagione fu condotto in piazzetta San Marco per l’esecuzione. Alcuni barcaioli, osservando la scena, fecero osservare al boia come il capestro fosse troppo lungo; questi, indispettito, replicò: “quando dovrò farlo per voi, lo farò a modo vostro!”. I battellieri avevano ragione e, dinanzi alle inaudite e prolungate sofferenze del Codoni, aggredirono il carnefice e lo malmenarono. Ne nacque una rissa e, raccontano le cronache dell’epoca, “molta gente andò in acqua”, parecchi finirono calpestati, molti annegarono e “fu veramente una gran strage di popolo”.

Chissà se il maldestro boia veneziano, dopo il disastro, abbia cambiato mestiere e opinione sulla pena capitale: Albert Pierrepoint, il celebre carnefice inglese che dal 1941 al 1956 eseguì dalle 400 alle 600 sentenze capitali, dopo essersi dimesso dal proprio incarico affermò: “… si dice che la pena di morte sia un deterrente. Non sono d’accordo. Tutti gli uomini e le donne che ho osservato nel loro istante finale mi hanno convinto che ciò che ho fatto non sia servito a prevenire un singolo crimine”.

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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