Paolo da Campo: pirata, mistico o spia?

Dettaglio del monumento dei Quattro mori, eretto a Livorno per celebrare i successi nella lotta contro i pirati barbareschi

Nell’estate del 1836, a Venezia, durante i lavori di restauro dell’altare maggiore di Santo Stefano furono rinvenute alcune ossa, un sarcofago ligneo e delle tavole recanti datate 1489, decorate con disegni dal significato oscuro: un vascello e una testa “con mostacchi e berretto orientale”.

A chi apparteneva quello scheletro? Qualcuno si ricordò di uno strano personaggio vissuto lì tre secoli prima, tale Paolo da Campo: un feroce pirata catanese che, dopo la cattura per mano veneziana, si trasformò in eremita dedito a pratiche religiose rigorosissime. Una metamorfosi da alcuni giudicata sospetta e che contribuì ad alimentare curiosità e leggende sul misterioso marinaio siculo.

Lo storico Emmanuele Antonio Cicogna (1789 – 1868), incuriosito dal rinvenimento delle “ossa di persona venerabile”, diede alle stampe il saggio “Cenni storici intorno Paolo De Campo da Catania già corsaro indi eremita del secolo XV”, dedicato a questa figura enigmatica.

Alla fine del Cinquecento il Mediterraneo era infestato da una moltitudine di predoni che con le loro rapaci incursioni ostacolavano i commerci della Dominante già alle prese con il Turco. Nel 1490, esasperati dalle scorrerie di pirati e corsari, i veneziani incaricarono il “celebre capitano di naviTommaso Zeno di partire al contrattacco e catturare i ladri di mare più agguerriti. I risultati non si fecero attendere: con abili manovre nelle acque di fronte a Ragusa l’ammiraglio riuscì a imprigionare uno dei pirati più spregiudicati, Paolo Da Campo che da troppo tempo seminava il terrore nel “golfo di Venezia” al comando di una “barza” e di un brigantino.

Trascinato in catene difronte ai giudici della Quarantia criminale, con una sentenza emessa il 28 gennaio 1492, il corsaro fu condannato al confino nel capoluogo lagunare con l’intimazione che, in caso di fuga, chiunque avrebbe potuto catturarlo vivo o morto

Vuoi per la consapevolezza di essere scampato per un soffio alla lama del boia, vuoi per quello che il Cicogna descrive come “animo alla religione proclive”, Paolo Da Campo cambiò repentinamente condotta e, smessi gli abiti del filibustiere, indossò il saio dell’anacoreta. Lo spauracchio dei naviganti trascorreva gran parte del proprio tempo in meditazione fra le ossa del cimitero di Santo Stefano. Di lui si racconta che girovagasse scalzo e col capo scoperto, che si accontentasse dell’elemosina dei passanti e che si nutrisse solo di cibi crudi. Interpellato da alcune donne che lo credevano capace di predire il futuro, il Da Campo pare fosse anche moralmente integerrimo. Una tale Orsolina che tentò di sedurlo mostrandole la coscia e il seno non solo fallì nell’impresa, ma fu condannata a pagare una multa e subire venticinque scudisciate.   

Trasformatosi in terrore dei demoni anziché degli uomini, secondo alcune fonti il novello sostenitore dell’amor divino “finì i propri giorni santamente” circondato dall’incredulità e dall’ammirazione di chi fu testimone di tale clamoroso ravvedimento.  E a riprova che il pentimento del predone aveva del miracoloso, si narra che a circa un secolo dalla sua morte, “fu ritrovato il corpo del predetto santo huomo perfettamente incorrotto come fusse stato sepolto all’hora”.

Ecco la ragione per cui, in quella estate del 1836, in molti gioirono convinti di aver ritrovato le spoglie del “pirata santo” a cui qualcuno pensò addirittura di dedicare un’epigrafe che tuttavia non si fece: “Pauli De Campo catinensis sec. XV”.

In realtà chi credeva di trovarsi al cospetto di sacre reliquie commise un errore clamoroso: Paolo De Campo il 28 di settembre 1499, dopo sette anni di mistica segregazione, aveva ottenuto il permesso di lasciare Venezia imbarcato sulla galea del provveditore generale della flotta Melchiorre Trevisan, diretto nel mare Ionio a capo di una spedizione contro gli Ottomani. Dunque il De Campo non era morto a Venezia.

Sulle ragioni per le quali il catanese abbia abbandonato così repentinamente il saio incombe una nebbia fittissima. I maligni sostengono che abbia ingannato i veneziani fingendosi pio per riacquistare la libertà e tornare al “primo abbominevol mestiere”. Altri affermano che il De Campo, grato alla città che lo aveva graziato, abbia voluto impugnare le armi per difenderla dalla minaccia ottomana. Lo storico Marin Sanudo (1466 – 1536) sostiene infine che, lasciata Venezia, il Da Campo divenne “spion” al soldo dei Turchi. La verità non la sapremo mai.

Di chi sono allora le ossa scoperte in Santo Stefano? Il Cicogna avanza l’ipotesi che lo scheletro sia quello di Bonsembiante Badoer da Peraga, agostiniano nato a Padova nel 1327 e morto a Venezia il 18 ottobre 1369, uomo di “ingegno acutissimo e angelico”.

Si chiude così, fra mille interrogativi, la vicenda di Paolo De Campo, protagonista di una delle tante storie nelle quali, per usare le parole di Alexandre Dumas, a fare da sfondo è “quel gran lago che chiamano Mediterraneo”.  Uno spazio affascinante nel quale, replicate dai pupari siciliani, risuonano ancora le gesta di un ambiguo personaggio che fu pirata, santo e avventuriero. 

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto:
(Articolo di proprietà di Dplay Srl)
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