Foto, cento ritratti che raccontano storie drammatiche, di sofferenza, storie di uomini e donne in fuga. Degli occhi dei bambini, dei loro giochi interrotti dalle bombe o da una corsa disperata verso la salvezza. Ma sono anche storie di riscatto, di sguardi e di profondo amore tra una moglie e un marito che niente e nessuno potrà mai dissolvere, di una mamma segnata da cicatrici e mutilazioni che diventano la sua forza per crescere i propri figli.
Così Giles Duley, fotoreporter di guerra, lunedì nella chiesa di San Teonisto a Treviso ha presentato il suo progetto umanitario in occasione dell’evento “Storie di Oggi” legato alla mostra “Out of Place”, arte e storia dai campi rifugiati nel mondo”, organizzata dalla Fondazione Imago Mundi nelle Gallerie delle Prigioni di Treviso.
Duley ha raccontato al pubblico la sua carriera e la svolta verso il cambiamento grazie alla sua fotografia come forma di arte per valorizzare le persone.
“Patrocinata dall’ UNHCR, l’iniziativa della Fondazione Imago Mundi sottolinea il valore dell’espressione individuale dei rifugiati”, dice Chiara Cardoletti rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’UNHCR, Agenzia Onu per i rifugiati.
Sono 114 milioni le persone, ad oggi, costrette a scappare dalle proprie case per colpa della guerra, persecuzioni e violenze.
“La mia storia fa eco alla gente che fotografo, – dice Duley -, con il potere dell’immaginazione le posso rendere libere”.
A 18 anni vince una borsa di studio sportiva per gli USA ma poco dopo il suo arriva resta vittima di un incidente che stronca i suoi progetti universitari. Da quel momento compra una macchina fotografica, la sua prima Olympus con la quale immortala band musicali.
“Mi chiamavano gli amici per fare delle foto durante i loro concerti, -racconta il fotoreporter, – in seguito sono approdato nelle grandi band musicali e tra le stelle del rock and roll mondiale”.
Da Marylin Manson, Mariah Carey, gli Oasis, fino a Lenny Kravitz dove nella sua casa a Miami capisce che quella non è più la sua strada.
“Stavo attraversando un periodo di profonda crisi con me stesso e mi chiedevo se questo fosse quello che volevo fare, – continua Duley-, da 10 anni questa era la mia vita fino a quando ho capito che dovevo cambiare e con la mia Olympus sono partito per l’Angola”.
Libano, Iran e poi Afghanistan, dove il fotografo seguendo un convoglio di soldati americani in missione mette un piede su un ordigno rudimentale che esplode sbalzandolo sotto un albero. Per 46 giorni, dopo un periodo in coma, resta in una stanza d’ospedale, senza tempo, senza – secondo lui – speranza. “I medici mi dicevano che non avrei più lavorato e nella mia testa iniziavo a pensare che la mia vita sarebbe finita”. E invece dopo 18 mesi il reporter torna in quei luoghi dove gli hanno strappato via entrambi gli arti inferiori e il braccio sinistro ma non la sua fervida immaginazione che tra operazioni e riabilitazione, lo hanno portato a progettare reportage, storie nuove a colori o in bianco e nero da raccontare o storie già viste ma che hanno sempre qualcosa di nuovo da dire.
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