Il mattino del 2 luglio 1961 Ernest Hemingway concluse la propria esistenza nella sua casa in Idaho sparandosi con un fucile da caccia. L’arma, una doppietta inglese Webley & Scott, pare fosse una delle preferite dallo scrittore americano.
Soltanto poche ore prima della tragedia Ernest, apparentemente tranquillo, aveva canticchiato assieme alla quarta moglie Mary Welsh un motivetto imparato a Cortina: “Tutti mi chiamano bionda, ma bionda io non sono: porto i capelli neri, neri come el carbon”. Una delle tante varianti della Mula di Parenzo, canzone popolare diffusa nel Triveneto, in Istria e Slovenia.
Minato dall’alcool, annientato dalla depressione, stremato da devastanti sedute di elettroshock, il sessantenne Ernest Hemingway cedette alle pressioni del male oscuro a quarantatré anni di distanza da quell’8 luglio del 1918 quando, volontario della Croce Rossa, venne gravemente ferito dal fuoco austriaco a Fossalta di Piave, mentre distribuiva generi di conforto ai soldati in prima linea.
Papa (il suo soprannome) era legatissimo all’Italia e in particolare al Veneto: in uno dei suoi più noti capolavori, “Addio alle armi”, dimostra una dettagliata conoscenza della regione citando, fra le altre, Schio, Casier, Bassano del Grappa, Caorle e Treviso. Luoghi che il premio Nobel aveva frequentato in veste di reporter di guerra, pescatore, cacciatore, viaggiatore; Hemingway amava così profondamente il nostro territorio da definirsi “un ragazzo del basso Piave e del Grappa” e “un vecchio fanatico del Veneto”.
Nella sua geografia del cuore la Serenissima godeva di un posto talmente speciale che giunse a chiedersi come si potesse vivere a New York quando al mondo esistono città come Parigi e Venezia.
Hemingway soggiornò ripetutamente nella Città del Mare, affascinato dalle atmosfere cangianti, dall’arte, dalla storia millenaria, dall’anima popolare e raffinata di un luogo unico al mondo. Suscitavano in lui profonda emozione i riflessi dell’acqua, il vento impetuoso, un campanile solitario o le reti stese ad asciugare fra le barche allineate sull’argine.
Scoprire (o riscoprire) Venezia sulle orme di Mr. Papa, guidati pagine del romanzo “Di là dal fiume e tra gli alberi” può riservare molte sorprese. Hemingway forse ne iniziò la stesura a Cortina, alla fine degli anni Quaranta, reduce da un soggiorno venatorio a San Gaetano di Caorle. Al centro della storia, costellata di riferimenti autobiografici, c’è l’amore impossibile e sconveniente fra il cinquantenne Richard Cantwell, colonnello dell’esercito americano, e la giovanissima Renata, una nobile veneziana. La Serenissima che fa da sfondo al romanzo assomiglia a una vecchia signora altolocata, prostrata dalle violenze e dalle miserie di due guerre mondiali, che non ne hanno compromesso il fascino, la dignità e l’eleganza.
Il protagonista, come l’autore, è un uomo precocemente invecchiato, consapevole della propria fine imminente e ciò nonostante sorretto da una folle joie de vivre dono di Renata e di Venezia. Adriana Ivancich, la musa ispiratrice del romanzo, all’epoca era una bellissima ragazza dell’aristocrazia lagunare della quale Hemingway si invaghì perdutamente.
Gli incontri fra Ernest Hemingway e Adriana Ivancich, a Cortina e a Venezia, durarono sino al 1955 anno in cui la frequentazione si interruppe definitivamente dopo aver alimentato chiacchiere e maldicenze.
Il romanzo non venne accolto con favore unanime dalla critica e la giovanissima Adriana divenne ben presto bersaglio di velenose insinuazioni. Hemingway dichiarò che le scene erotiche contenute nel libro nella realtà non avvennero, ma ciò servì a poco, come inutile si rivelò il suo intervento per bloccare la pubblicazione del volume in Italia. Adriana fu trascinata in un vortice di cattiverie e meschinità che la ferirono mortalmente.
Ma torniamo a Hemingway e a Venezia: il colonnello Cantwell, giungendo da Mestre ne intravede la sagoma e tale è l’emozione che esclama: “Stiamo entrando nella mia città […] Cristo, che bella città”.
Una commovente dichiarazione d’amore a Venezia da parte di un uomo divenuto soltanto l’ombra di colui che un tempo non abbassava lo sguardo nemmeno davanti alla morte, del cantore dei pugili e dei toreri, del reporter che fra i primi aveva varcato i reticolati nei campi di sterminio di Dachau e Buchenwald. Papa era consapevole della fragilità che lo tormentava nel fisico e nella mente: ciò nonostante, a Venezia, si illuse di aver finalmente scovato un prodigioso buen retiro. La Serenissima dispensava a piene mani bellezza, gioia e buon cibo, tutti antidoti alla deprimente malinconia che lo attanagliava da troppi anni.
Nella città dei grandi alberghi Hemingway considerava il Gritti Palace il più grande e tale era l’ansia di entrare nella propria camera che egli non esitava a rimbrottare affettuosamente il vecchio cameriere non abbastanza lesto a manovrare la pesante chiave. Nel corso di uno dei tanti soggiorni lagunari, scampato a un incidente aereo in Africa, Papa annunciò di voler restare a in laguna per sottoporsi a una terapia ricostituente a base di piatti e vini italiani; nella nobile residenza affacciata sul Canal Grande si può ancora ammirare la ricetta del leggendario remedy risotto, un “piatto curativo” a base di scampi e brodo di pesce particolarmente amato dallo scrittore come le tante (troppe) bottiglie di Soave, Amarone e Valpolicella.
Amico personale di Giuseppe Cipriani, ben inserito nella locale élite lagunare, Hemingway/Cantwell era di casa con Adriana/Renata all’Harry’s Bar ove accompagnava scatole di caviale con champagne d’annata (sorseggiato anche a colazione) e fantasiosi cocktail fra i quali il Montgmomery ispirato al celebre generale britannico: gin e vermouth dry in proporzione di 15 a 1, come il rapporto fra truppe attaccanti e unità di difesa giudicato ottimale dal generale inglese.
A Venezia Hemingway trascorreva ore in contemplazione delle acque color acciaio dei canali, degli scorci del Torcello (culla della Serenissima) e amava mescolarsi fra gli avventori del mercato del pesce di Rialto. Qui indugiava fra astici appena catturati, anguille, scampi e tonnetti affusolati e argentei come proiettili. Affascinato da tutto quel ben di Dio assaporava peoci crudi, acquistava del salame per sé e per il cane da caccia, criticava i propri connazionali ignari della bontà della mortadella. Come il colonnello Cantwell Ernest frequentava con la medesima disinvoltura i luoghi popolari come i locali più esclusivi: il Ciro’s bar (oggi La Caravella) e il Caffè Florian, le calli, i ponti e i canneti della laguna nei quali si immergeva sfidando l’umidità delle prime ore del mattino, nascosto in una botte per insidiare germani, fischioni.
Nell’itinerario veneziano al fianco di Ernest/Richard e Adriana/Renata, dopo una visita alla Scuola Grande di San Rocco al cospetto dei capolavori del Tintoretto, uno dei più amati dal premio Nobel, non può mancare una sosta finale a Palazzo Rota Ivancich, proprietà degli eredi dell’affascinante Adriana, scomparsa volontariamente a cinquantatré anni il 24 marzo del 1983 sul litorale toscano. Una donna splendida e sensibile, vittima di una società bigotta e ipocrita, colpevole di aver ceduto alle lusinghe di un uomo straordinario in una città meravigliosa.
(Foto: Qdpnews.it – FAST – Foto Archivio Storico Trevigiano).
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