Agnadello è un comune lombardo il cui nome, a distanza di oltre cinque secoli, evoca una sanguinosa battaglia rinascimentale. Qui, il 14 maggio del 1509, le forze della Lega di Cambrai travolsero le milizie della Serenissima che da allora si vide costretta a ridimensionare l’ambiziosa politica di espansione in terraferma.
Uno dei protagonisti dell’epico scontro, passato alla storia anche come “battaglia di Ghiaradadda” o “giornata di Vailà”, fu Bartolomeo d’Alviano (1455 – 1515), capitano di ventura di origini umbre che, giovanissimo, abbracciò il mestiere delle armi per tradizione familiare e autentica vocazione.
Il cronista friulano Giovanni Battista di Cergneu, testimone dell’epoca, ne restituisce un ritratto vivido e assai poco rassicurante: fisicamente insignificante, il Liviano (questo il suo soprannome) era incline alla bestemmia, alla sodomia e alle violenze più efferate, non mostrava alcun riguardo per la religione e i suoi simboli; ciò nonostante, ammette lo storico friulano, possedeva una spiccata manualità, una sorprendente eloquenza e un intrepido coraggio.
Condottiero esperto, con alle spalle un prestigioso curriculum militare maturato al servizio dello Stato Pontificio e del Regno di Aragona, il Liviano venne assoldato da Venezia nel 1508. La sua sconfitta ad Agnadello, secondo alcuni storici, fu il risultato dell’eccessiva irruenza e del lacunoso coordinamento con gli altri comandanti sul campo. Ferito e fatto prigioniero dai francesi, sarà liberato soltanto nel 1513, anno in cui divenne il braccio operativo della Dominante per il potenziamento delle fortificazioni di Treviso.
Ingaggiato in sostituzione di Fra’ Giovanni Giocondo, Bartolomeo d’Alviano si gettò a capofitto in un’impresa ardua ma che non lo intimoriva affatto. A differenza del predecessore, di cui condivideva il pensiero, il Liviano mostrò immediatamente la propria tempra di condottiero pragmatico e volitivo. A distanza di pochi giorni da un accurato sopralluogo alle mura iniziò infatti a impartire ordini precisi e incalzanti affinché si giungesse quanto prima a completare il progetto giocondiano, indubbiamente valido ma del quale, come lui stesso ebbe a dire, “non è compito niente”.
A differenza del frate veronese ribattezzato “architetto senza architetture” per l’abitudine a non indugiare su carte e disegni, il Liviano scese nei particolari tecnici ed economici dell’opera, confermando la propria reputazione di comandante solerte e concreto. Collocato in una posizione privilegiata rispetto alle altre autorità, esercitò con naturale disinvoltura i pieni poteri che gli furono concessi. I lavori procedettero speditamente ma, questo è il destino di molte fortificazioni, la cinta muraria di Treviso era nata già vecchia: l’evoluzione delle armi da fuoco, dell’artiglieria e più in generale dell’arte militare avanzavano molto più rapidamente dei cantieri della città del Sile che, alla resa dei conti, potrà contare su mura possenti e porte maestose, più impressionanti dal punto di vista estetico che militarmente efficaci.
Sono molti gli studiosi che, mettendo a confronto l’operato di Fra’ Giocondo con quello di Bartolomeo d’Alviano, esaltano le geniali soluzioni del frate veronese e contestano al Liviano l’incapacità di modificare in corso d’opera un progetto divenuto prematuramente obsoleto.
Ad accomunare queste due personalità così diverse sarà il destino: nell’anno 1515 infatti morirono entrambi. Fra’ Giocondo a Roma, nel mese di luglio; il Liviano pochi mesi dopo, il 7 ottobre, a Ghedi, per i postumi di una caduta da cavallo.
In segno di riconoscenza per i servigi resi Venezia fece erigere al Liviano un elegante monumento funebre nella chiesa di Santo Stefano; alla moglie e ai figli fu invece concesso un cospicuo vitalizio: il Gran Capitano, così scrupoloso nella pianificazione e nella condotta della battaglia, altrettanto diligente nel sorvegliare le spese per le fortificazioni, gestì il proprio patrimonio con insospettabile leggerezza: amante del lusso e dello sfarzo, in vita non badò a spese tanto da lasciare i propri familiari sul lastrico.
E a proposito di denari, di guerre e di sorprendenti coincidenze temporali è curioso constatare come la Zecca della Serenissima abbia coniato una preziosa moneta in occasione della vittoria di Lepanto, avvenuta proprio il 7 ottobre del 1571, giorno di Santa Giustina, esattamente cinquantasei anni di distanza dalla morte del leggendario Bartolomeo d’Alviano.
(Autore: Redazione Qdpnews.it)
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