Il Consorzio di Bonifica Piave lancia l’allarme, tra poco più di un anno la pianura trevigiana rischia la desertificazione veloce e progressiva se non vi si porrà rimedio.
Tutto ha origine da una direttiva europea che definisce il Deflusso Ecologico, riducendo di tre volte le capacità di captazione dell’acqua dei fiumi da parte dei consorzi irrigui finalizzata a distribuire acqua sulle coltivazioni e per la produzione di energia rinnovabile.
L’obiettivo, lodevole per la verità in senso assoluto, della direttiva recepita nel 2017 dallo Stato italiano, è quello di restituire un cosiddetto “stato buono” al termine del deflusso dei fiumi.
Tutto ciò rappresenta, per la particolarità propria del Piave (così pure del Tagliamento e, in parte, del Brenta), un danno all’economia reale che supera abbondantemente i 100 milioni annui solamente sulla produzione agricola e che, se considerato l’insieme delle filiere produttive, potrebbe arrivare a raggiungere cifre a nove zeri.
Una situazione del tutto particolare, dovuto dalla caratteristica torrentizia del Piave e dalla scarsa alimentazione da parte di altre fonti idriche, come affluenti o sorgive.
Sono due le prese d’acqua del Consorzio, una a Fener e l’altra a Nervesa della Battaglia (oltre a 49 centrali idroelettriche più o meno piccole), che servono a irrigare circa 55mila ettari della provincia di Treviso e, in minima parte, della provincia di Venezia.
Fino a ora la captazione dal fiume era regolata dal Dmv (Deflusso minimo vitale), che è di 10,2 metri cubi al secondo a Nervesa e di 11,9 (invernale) e 6,3 (estivo) a Fener. Entro il gennaio del 2022 il Consorzio Bonifica Piave dovrà passare, a Nervesa, a 33,6 mc/sec.
Le conseguenze della riduzione di presa d’acqua, nel territorio trevigiano, saranno disastrose se non saranno presi adeguati provvedimenti. Il Consorzio Bonifica Piave, questa mattina, sabato 3 ottobre 2020, ha annunciato i primi investimenti, per un importo di circa 20 milioni di euro, che serviranno ad avviare un processo di trasformazione irrigua del territorio che interessa diversi comuni della Provincia.
Sono intervenuti il presidente del Consorzio, Amedeo Gerolimetto, il direttore Paolo Battagion, il dirigente dell’area tecnica Daniele Mirolo e Alessandro Leonardi, direttore di Etifor, una spin-off dell’Università di Padova che ha messo a punto uno studio sulle conseguenze economiche del passaggio dal Dmv al De sul territorio del Piave.
Il Consorzio già da tempo ne sta studiando gli effetti. Nel marzo del 2018 aveva anche adottato una sorta di “stress-test”, interrompendo la presa d’acqua di Fener (che arriva nel canale di Montebelluna) e di Nervesa della Battaglia (che attraverso il ramo del Cagnan arriva a Treviso, città d’acqua).
Il risultato è stato immediatamente tangibile, i canali di Treviso si sono quasi prosciugati e così pure il fossato di Castelfranco Veneto. Le conseguenze si sono osservate anche nei laghi alpini e persino del livello del Sile, che per il 25% è alimentato dalle acque provenienti dal Piave.
In termini economici si avrà una perdita di 84 milioni di euro in energia pulita derivante dalle centrali idroelettriche, si avrà una perdita di quasi il 50% nella produzione agricola vendibile e un impatto su altri servizi ecosistemici (con una stima di perdita, secondo Etifor, di 11 milioni in 6 anni).
“Servono 300 milioni di euro per ridurre il prelievo dal Piave. Occorre passare da emergenza a sistema e fare investimenti irrigui, recuperando anche le cave abbandonate sul territorio trasformandole in bacini di riserva idrica”, ha detto il direttore generale del Consorzio, Paolo Battagion.
“La grande trasformazione possibile è da impianti a scorrimento (canali) a impianti a pressione (acquedotto agricolo) con la possibilità di utilizzare tecnologie anche molto avanzate – ha sottolineato l’ingegner Daniele Mirolo -. La trasformazione è iniziata già dagli anni Settanta, ma restano da trasformare ancora 25mila ettari. La necessità d’acqua per irrigare è circa 100 volte quella potabile. Servono circa 7mila euro per ogni ettaro coltivato per tale trasformazione, 20 milioni per i 3.060 ettari coltivati. Lasciare un metro cubo al secondo al Piave costa 13 milioni di euro. Con meno dispersione si otterrebbero grandi risultati, che però non sono sufficienti per raggiungere l’obiettivo imposto”.
“Non ce la faremo senza i bacini di invaso in pianura, le cave – ha concluso il presidente Gerolimetto -, e per questo serve una scelta politica. Con questa trasformazione, inoltre, la cava sarebbe veramente controllata. Dovrà essere messa in capo all’agenda politica se vogliamo garantire per i prossimi anni ai nostri figli un ambiente migliore e ancora economicamente florido”.
(Fonte: Flavio Giuliano © Qdpnews.it).
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