“Nella mia vita mai avrei pensato di spingermi così lontano e così in alto, fino al campo base dell’Everest. Everest, il nome della montagna più alta della Terra, un nome e una quota che avevo imparato fin da bambino ed insegnato tante volte a scuola ai miei studenti”.
Qdpnews.it – Quotidiano del Piave ha avuto il piacere di incontrare Paolo Manto, ex maestro elementare di Moriago della Battaglia che, una volta raggiunta la pensione, ha deciso di intraprendere dei lunghi viaggi. Dopo il Cammino Portoghese,Manto si è spinto ancora più in alto: sull’Everest Base Camp.
“Era l’inverno del 2023 quando – ci racconta Manto – durante un corso, conversando con alcuni amanti della montagna, sentii parlare del progetto di raggiungere l’Everest Base Camp. Il periodo previsto era dal primo al 21 aprile 2024 e, senza pensarci due volte, chiesi se avrei potuto unirmi a loro. Purtroppo i posti erano già stati tutti occupati. Passarono i mesi, quando in settembre, ricevetti una mail nella quale mi si chiedeva se fossi ancora disponibile ad unirmi al gruppo perché si era liberato un posto. Felicemente sorpreso dalla notizia accettai subito”.
Un trekking con grandi emozioni, ma anche di fatica, di freddo e di fame d’aria
“Davvero, è stato un viaggio incredibile che rimarrà per sempre impresso nel mio cuore e nella mia memoria. Il viaggio attraverso l’Himalaya non ha significato solo raggiungere la meta affascinato dalle meraviglie della natura, ma è stato anche una profonda immersione nel ricco arazzo della cultura e nella spiritualità nepalese.
Tra bandiere sventolanti, rulli di preghiera e villaggi di montagna, il genuino calore e l’ospitalità semplice della gente del posto hanno lasciato un segno indelebile nella mia anima, ricordandomi l’interconnessione dell’umanità col divino. Questa magnifica esperienza mi ha messo a dura prova, ma mi ha anche consentito di comprendere i miei limiti umani e soprattutto fisici, dovuti alle basse temperature e alla risposta del mio organismo alla carenza di ossigeno”.
Come prepararsi
“Mancavano quasi sei mesi alla partenza e iniziai quindi la preparazione fisica per questo impegnativo ed importante trekking. In quel periodo intensificai le escursioni in montagna associando anche un’attività in palestra per il rinforzo muscolare soprattutto della schiena.
Mi documentai sul trekking: l’impresa avrebbe presentato delle difficoltà per la lunghezza, il clima e soprattutto per l’altitudine, ma sembrava possibile. Una cosa tra tutte però, mi preoccupava: l’altitudine.
Avremmo raggiunto quote oltre i 5000 metri e in questa situazione si possono manifestare i sintomi del “mal di montagna”. Sarebbe stato un vero peccato dover rinunciare a raggiungere il campo base dell’Everest se avessi manifestato dei problemi per questo motivo”.
Il mal di montagna e l’acclimatamento necessario
“Il mal di montagna è la risposta del nostro organismo alla carenza di ossigeno che si verifica a quote superiori a 3500 metri. Può manifestarsi con affaticamento, cefalea, nausea, vomito, inappetenza, insonnia, vertigini, disorientamento e nei casi più gravi edema polmonare o cerebrale; in questi casi è bene scendere velocemente di quota per evitare gravi danni all’organismo. Per questo, nella progressione verso la vetta, sono previste le giornate di acclimatamento che aiutano il nostro corpo ad adattarsi alla carenza di ossigeno a quote elevate.
Durante l’acclimatamento, che avviene di solito in due tappe, si sale di quota e si torna a dormire a quote più basse. La risposta del fisico è soggettiva ed è indipendente dalla preparazione atletica personale. Non esiste un modo per prepararsi prima all’altitudine, solo quando si arriverà in quota si potrà conoscere la reazione del proprio fisico”.
I materiali, lo zaino e i portatori
“Un adeguato abbigliamento tecnico è molto importante e va scelto con attenzione perché più si sale, più la temperatura diventa rigida. Bisogna essere ben attrezzati per il freddo, il vento, la pioggia e la neve, soprattutto perché a quote così alte il tempo cambia molto rapidamente. Non deve inoltre mancare un sacco a pelo bello caldo per le gelide notti himalayane. Nello zaino individuale, che pesa 9-10 chili, c’è il necessario per la giornata; tutti gli altri materiali più pesanti vengono messi in appositi borsoni e trasportati dai portatori al seguito dei trekker.
Normalmente chi fa un trekking sull’Himalaya, oltre alla guida, assume anche dei portatori locali; nel nostro caso, essendo undici trekker, abbiamo avuto a disposizione sei portatori. che hanno portato due borsoni da 10-15 kg ciascuno”.
Finalmente si parte
“I mesi passarono in fretta e la data della partenza arrivò. Il primo di aprile 2024 io con il resto del gruppo, composto da sei donne e cinque uomini, partimmo da Venezia. Destinazione Kathmandu Nepal. Nomi che solo a pronunciarli, evocavano in me immagini straordinarie di templi buddisti e altissime montagne”.
Arrivo a Kathmandu
“Dopo una notte di volo arrivammo nella capitale nepalese dove ci accolse Phunuru la nostra guida, che ci accompagnò all’albergo per riposare dal lungo viaggio. Il giorno seguente il programma prevedeva la partenza all’una di notte e ben quattro ore e mezza di pullman per raggiungere l’aeroporto di Ramechamp da dove sarebbe partito l’aereo verso Lukla, il punto di partenza del trekking. Per evitare un’alzataccia, accettammo la proposta della nostra guida di prendere l’elicottero, un po’ più costoso dell’aereo, ma più comodo e veloce”.
Lukla: il punto di partenza del trekking
“Il nostro trekking iniziò a Lukla a 2820 m. Lukla è un piccolo paese, è punto di partenza per tutti i trekker diretti all’Everest Base Camp ma anche per gli alpinisti che puntano alle vette più alte. Nel paese era tutto un viavai di trekker: quelli che ritornavano stanchi e impolverati, ma evidentemente soddisfatti della loro impresa, ed altri come noi, lindi e puliti pronti per iniziarla.
A Lukla ci attendevano altri tre accompagnatori e sei portatori; fatte le dovute presentazioni, i portatori legarono insieme i nostri borsoni e se li si misero in spalla precedendoci nel nostro cammino verso Phakding a 2610 m. la nostra meta della giornata.
Ero finalmente tra i monti dell’Himalaya, eccitato ed incredulo per questa grande avventura che stava iniziando”.
Il percorso nel Parco nazionale del Sagarmatha
“Il percorso che conduce al Campo Base dell’Everest è lungo circa 140 km, si snoda lungo la valle del Khumbu e attraversa diversi villaggi sorti negli anni, a seguito dello sviluppo turistico verso l’Everest, per dare ospitalità ai trekker e agli alpinisti.
La salita ai 5364 m del campo base è avvenuta in otto giorni con l’ascesa alla cima del Kala Patthar a 5644 m.
Le due tappe di acclimatamento sono state: il terzo giorno di trekking a Namche Bazaar a 3444 m con salita per primo acclimatamento a 3840 m e il sesto giorno a Dingboche a 4410 m con salita ulteriore a 5200 m. Il percorso di ritorno invece è durato sette giorni lungo un tracciato diverso”.
Un trekking piuttosto affollato
“Questo trekking è percorso ogni anno da circa cinquantamila persone di ogni nazionalità. Sono possibili alcune varianti che consentono un percorso ad anello attraverso dei passi a 5000 metri. Si attraversano piccoli villaggi dove a fianco di un’agricoltura di povera sussistenza convivono ormai offerta turistica e piccoli negozi dove si possono trovare attrezzatura, cibo e artigianato locale.
I sentieri sono larghi e sono percorsi in entrambi i sensi sia da trekker e da portatori che da colonne di yak o asini che trasportano materiali. Numerosi sono gli attraversamenti su ponti sospesi da un lato all’altro della valle, solo nella prima tappa se ne attraversano ben cinque. Fino a 3000 metri esiste ancora una fitta vegetazione di boschi che, man mano che ci si alza di quota diminuisce, sostituita da piccoli cespugli e zone brulle fino a scomparire del tutto sopra i 4000 metri. Sebbene il percorso non presenti particolari difficoltà tecniche, le alte quote raggiunte aumentano la fatica e il rischio di mal di montagna”.
In cammino verso la meta
“Sin dal primo giorno i miei passi percorrevano pieni di gioia i sentieri polverosi della valle. Il paesaggio si modificava progredendo nella salita e le alte vette innevate ad ogni passo diventavano più vicine. Il quinto giorno eravamo già molto in alto a 3900 m, le temperature erano fredde, e l’ambiente, diventato ormai roccioso e spoglio, metteva ancor più in risalto le alte e maestose cime. Eravamo ormai al cospetto degli ottomila e il paesaggio era davvero spettacolare. Quel giorno, in cinque del gruppo, salimmo fino a quota 4600m al campo base dell’Ama dablam, vetta che coi suoi 6812 m domina la valle.
Nei giorni seguenti è nevicato e il paesaggio imbiancato risultava ancor più meraviglioso. Essere lì, tra le montagne dell’Himalaya mi dava una sensazione di infinito ed era per me una grandissima emozione. Giorno dopo giorno la meta si stava avvicinando”.
La forza incredibile dei portatori Sherpa
“La parola sherpa viene solitamente usata col significato di portatore di alta quota, ma non è corretto. “Sherpa” è il nome del popolo che proviene dal Tibet e che vive in quelle valli: in tibetano, pa significa “gente”, mentre sher o shar vuol dire “oriente”. Gli Sherpa, letteralmente il “popolo dell’Est”, sono il gruppo più numeroso del Solukhumbu, la regione in cui s’innalza l’Everest. Tutte le merci arrivano nei villaggi di questa valle caricate sulle spalle degli uomini, o sul dorso di asino o yak. I portatori portano dei carichi veramente incredibili, hanno una forza davvero sovrumana. Questi uomini, giovani o meno, trasportano qualsiasi merce sulla schiena senza usare spallacci, ma solo con una larga fascia sulla fronte che regge tutto il carico e un corto bastone per appoggiarsi. Vedendoli salire sui sentieri piegati da questi carichi pesantissimi, magari calzando semplici scarpe ginniche, o spesso con ciabatte, infradito o addirittura stivali di gomma, mi chiedevo veramente che forza straordinaria avessero”.
Le guide: uomini normalmente straordinari
“Per ogni gruppo di trekker c’è un capo-guida e degli altri accompagnatori, in numero variabile, che lo coadiuvano nel lavoro. Questi uomini non sono solo degli esperti conoscitori del territorio delle valli, sanno essere anche molto attenti al gruppo e al singolo, sempre pronti a incoraggiare e supportare chi si trova affaticato o in difficoltà. È grazie alla loro dedizione e al loro entusiasmo che la nostra esperienza è stata sicura e indimenticabile”.
Come sopravvivere in camere gelate
“La popolazione Sherpa si occupa di tutta la logistica, i pernottamenti sono in lodge (strutture in muratura o baracche col tetto in lamiera) non riscaldati. L’unico locale riscaldato è la stanza dove si cena dove è presente una piccola stufa centrale che ad alte altitudini viene alimentata con sterco di Yak per intiepidire l’ambiente, ma solo per il tempo del pasto.
Nei lodge si pernotta in piccole camere da due letti, all’interno di notte faceva così freddo che l’acqua nella mia borraccia più volte si è ghiacciata. Per sopportare le rigide temperature è assolutamente necessario avere un caldo sacco a pelo. I servizi igienici non hanno acqua corrente perché l’acqua nelle tubature ghiaccia. Più si sale e più gli alloggi sono spartani, manca l’acqua calda e fare la doccia non è più possibile, in nostro soccorso ci sono state le salviette umide delle quali abbiamo fatto buona scorta. Anche i cambi sono limitati e si indossano gli stessi indumenti per più giorni”.
Dieta vegetariana d’obbligo. Clima e temperature
“I nepalesi per la loro religione sono tendenzialmente vegetariani. Durante il trekking la dieta è vegetariana in quanto la carne non è consigliata per problemi di conservazione. Il piatto più comune è il dal bhat (lenticchie e riso), che spesso è accompagnato dalla verdura a vapore (tarkari). La bevanda per eccellenza è il tè, o un infuso di zenzero, limone e miele. Molte zuppe di verdura calde hanno riscaldato il nostro stomaco al fine della giornata.
I periodi consigliati per il trekking sono la primavera e l’autunno quando non ci sono le piogge monsoniche. Dai 3000 ai 3500 m il clima è fresco, ma salendo di quota dai 4000 ai 5000 m e oltre, si fa più rigido: le temperature notturne possono raggiungere meno 15-20 gradi, mentre di giorno non salgono sopra o zero. Se le giornate sono soleggiate l’aria è tiepida e si cammina piacevolmente. Spesso nel pomeriggio però il tempo cambia, si rannuvola e si alza il vento che aumenta notevolmente la percezione di freddo. Non è raro che inizi a nevicare, durante il nostro trekking è successo tre volte. In questi casi l’abbigliamento adeguato ti permette di affrontare questa variabilità di condizioni meteorologiche senza disagi”.
Preghiere nel vento, ruote di preghiera, Stupa e monasteri
“Molto spesso nei punti più ventosi sono stati tirati colorati fili di bandiere di preghiera tibetane. Il vento che le avvolge e le farà muovere rinnova di volta in volta la preghiera e la sparge. Il vento ha il compito di trasportare nell’aria le benefiche parole delle preghiere portando pace e serenità ai popoli lontani e vicini. Quando il vento soffia sulla superficie delle bandiere, l’aria intorno si purifica e si santifica.
Durante il percorso del trekking si incontrano molto spesso le ruote della preghiera che i passanti fanno girare per diffondere il mantra che vi è inciso. Frequenti sono gli stupa, costruzioni religiose a forma di cupola con gli occhi del buddha che guardano nelle quattro direzioni e rocce sulle quali sono incisi a grandi caratteri dei mantra religiosi. In alcune località si ergono anche dei decorati templi buddisti abitati dai monaci”.
Finalmente al campo base dell’Everest
“L’ottavo giorno di trekking, in mattinata arrivammo a Gorak Shep 5180 m, l’ultimo e più alto avamposto prima dell’Everest Base Camp. Dopo una piccola pausa ristoratrice, in tre, più la guida, iniziammo la salita alla cima del Kalapathar a 5640 m, il punto più panoramico per ammirare la cima della montagna più alta del mondo.
Nel pomeriggio il tempo stava cambiando, il cielo era nuvoloso e si era alzato il vento. In gruppo riprendemmo il cammino sul sentiero che si snodava sulla morena del ghiacciaio del Khumbu. Dopo circa tre ore arrivammo al campo base dell’Everest a 5364 mentre iniziavano a cadere dei piccoli fiocchi di neve: il traguardo era stato finalmente raggiunto. Eravamo tutti molto provati dalla fatica della salita e dal freddo dei giorni precedenti, ma eravamo anche felici e pienamente soddisfatti di aver portato a termine questa impresa.
Il campo base che ho raggiunto è il primo di altri quattro e inizia da qui il percorso per chi vuole cimentarsi nella salita al Sagarmatha, così è chiamata in nepalese la montagna più alta del mondo di 8848 m”.
Sulla via del ritorno
“Il percorso di ritorno si completò in sette giorni, in valli diverse da quella dell’andata e non sempre in discesa come si potrebbe pensare. Salimmo infatti un ghiacciaio fino ai 5420 m del Cho La Pass e poi fino allo stupendo lago di Gokyo parzialmente ghiacciato. Dopo alcuni giorni di cammino scendemmo sotto i 4000 metri. Con grande sollievo di tutti la notte riuscimmo a dormire meglio e il clima si era fatto meno rigido.
Nell’ultimo giorno di trekking la giornata non era buona e nuvole minacciose si aggiravano sopra di noi, per fortuna piovve solo per l’ultimo tratto di cammino. Arrivammo a Lukla verso sera e da qui il giorno seguente ripartimmo in aereo alla volta di Kathmandu.
Bisogna spiegare che l’aeroporto di Lukla è considerato il più pericoloso al mondo perché ha una pista lunga solo 500 metri!! Quando l’aereo atterra, la pista è in salita e termina contro il fianco della montagna; per il decollo essa viene percorsa in discesa e finisce con un burrone.
La mattina ci imbarcammo sul piccolo aereo bielica, non senza una certa apprensione. Il volo fu abbastanza tranquillo a parte qualche scossone di troppo. Atterrammo in un piccolo aeroporto e da lì, dopo quasi cinque ore di pulmino e una ruota bucata, arrivammo al nostro hotel di Kathmandu dove, finalmente dopo tredici giorni potei fare una bella e lunga doccia calda”.
Kathmandu: colori, sapori e profumi tra sacro e profano
“La città è caotica e brulicante di persone. Le strade sono intensamente trafficate da motociclette e mezzi di ogni genere che diffondono nell’aria un intenso odore di fumi di scarico che si mescolano, in alcuni momenti, con gli odori di incenso bruciato nei moltissimi templi sparsi per la città.
Nelle vie del centro molti i ristoranti servono specialità della cucina nepalese e internazionale. Kathmandu con i suoi negozi di materiale tecnico è il paradiso degli alpinisti per gli acquisti. Ovunque grovigli di fili elettrici che sfidano ogni regola di sicurezza. L’impressione che si ha è comunque di un affascinante e grande formicaio dove regna un caos ordinato”.
Namastè: più che un semplice saluto
“Moltissime volte durante il giorno ho dato e ricevuto questo saluto e ricambiando i sorrisi e la gentilezza di uomini, donne e bambini dell’Himalaya. La popolazione nepalese è di religione induista o buddista, è una popolazione molto accogliente e disponibile, vive la spiritualità in modo intenso e genuino.
Quando si attraversano i villaggi la popolazione sorride e con le mani giunte al petto porge il saluto: “namastè”. Le mani giunte significano umiltà e il sorriso sul volto indica calore e rispetto per la persona alla quale ci si sta rivolgendo. In Nepal, “namastè” è uno dei modi più educati e gentili per salutare qualcuno. Un saluto garbato ed elegante. Infatti, il significato della parola namastè dice molto sulla cultura nepalese. Il termine deriva dal sanscrito antico e significa “mi inchino alla divinità che è in te”. Quindi quale migliore saluto per terminare il racconto di questa esperienza indimenticabile? Namastè a tutti voi”.
(Foto: Paolo Manto. Video: Qdpnews.it riproduzione riservata)
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