Vajont, il superstite Bepi Vazza: “Al cimitero di Fortogna ho 14 familiari. Mancò l’aiuto istituzionale”

Bepi Vazza, superstite del Vajont

Grandi emozioni mercoledì 9 ottobre nella Sala Giovanni XXIII di Cornuda per “Vajonts 24. La memoria rivelata da chi c’era“, spettacolo organizzato in occasione del 61esimo anniversario della tragedia del Vajont.

Prima e dopo lo spettacolo, promossa dall’Assessorato all’Ambiente del Comune di Cornuda, ha preso la parola Giuseppe “Bepi” Vazza, superstite della tragedia.

Lo spettcolo ‘Vajonts 24. La memoria rivelata da chi c’era’

Presenti in sala il sindaco Enrico Gallina, il vicesindaco Erica Condio e l’assessore alla cultura Elisa Corso.

“Vajonts 24. La memoria rivelata da chi c’era” è un progetto di Vilfred Moneta e Christian Rui realizzato da Teatro del Fiume.

Sala Giovanni XXIII gremita per l’incontro sul Vajont

Gli effetti sonori e musicali sono curati da Milli Fullin mentre le voci narranti sono dello stesso Rui insieme a Debora MilaniGianluca MancusoMarika ZanchettaMarina De CarliMaurizio Putignano, Roberto Miggiano /regia luci/audio Michele Barbon).

Lo spettacolo comprende delle letture teatrali estrapolate dallo spettacolo “Vajont, una Rabbia più grande della pietà” e altre ispirate al libro “In meno di quattro minuti” di Giuseppe Vazza.

L’assessore Condio con Bepi Vazza e la moglie

“Io all’epoca avevo un rapporto di lavoro con il cantiere che costruiva la diga – ha raccontato Vazza – 61 anni fa avevo già 30 anni. A Codissago, frazione di Longarone, avevo una macelleria e fornivo le mense operaie che lavoravano lì. Mi recavo quasi tutti i giorni su a fare queste forniture. Ero a conoscenza del dramma che si stava perpetrando. Assistetti a diversi fatti pericolosi e li raccontai, ma i tecnici erano tutti propensi nel dire che era tutto sotto controllo e naturale. Questo però non mi lasciò tanto tranquillo”.

“Venti giorni prima dell’evento – continua -, un pomeriggio, mentre stavo consegnando la carne alla cuoca nelle baracche che erano sul pendio del lago, dal Monte Toc cadde l’ennesima fetta di montagna, sollevando un’onda verticale che si diresse verso di noi. Io e la cuoca scappammo dalla cucina e andammo in alto verso la strada. Poi l’onda si infranse sulla sponda opposta e si dissolse sotto le palafitte delle baracche. La paura fu immensa. Un paio di giorni dopo tornai su per fare la solita fornitura e non trovai più la cuoca che si era licenziata”.

“Mi diceva sempre che non voleva morire là – prosegue -. Al suo posto la Sade aveva reclutato una ragazza di Quero, Ines Rizzotto. Questa ragazza venne rimessa al lavoro dopo dieci mesi di maternità. In casa aveva lasciato la sua bambina di tre mesi con la nonna. Questa ragazza, alcuni giorni dopo, venne ritrovata 200 metri più in alto smembrata in mezzo ai rovi. Quella figura ho voluto tenerla per me e metterla nella mia storia. Io quella sera (9 ottobre 1963) ero al bar con gli amici, c’era una partita importante di Coppa dei Campioni”.

“Mia moglie – aggiunge -, che era in stato interessante, il venerdì precedente era andata da una sua sorella ad accudire la sua bambina. Quindi si salvò e salvò pure me, altrimenti non sarei stato con gli amici al bar. All’ora fatidica, alle 22.39, scoppiò il finimondo. Il bar implose su se stesso e noi cercammo di uscire prima che crollasse tutto. Uscimmo in strada e io mi preoccupai perché in casa avevo lasciato la mamma e i nonni. Il mio paese era di fronte a Longarone. Calcolai che ce l’avrei fatta a correre verso casa, svegliare la mamma e i nonni e scappare verso la parte alta del paese”.

“A metà strada vidi scomparire le luci di Longarone – continua -. Continuai a correre e arrivai fino alla porta della macelleria e lì fui investito dalla prima ondata di vento, talmente forte che ti tirava via la pelle dal volto. L’ondata di vento mi denudò, sollevandomi e riportandomi da dove ero arrivavo. Correvo ma non toccavo terra e sbattei anche su un amico che abitava una decina di metri sopra casa mia. Ero insanguinato ma al sicuro. Feci il giro alto del paese, andai a svegliare i miei suoceri e mio cognato mi diede degli indumenti”.

“Con la torcia scendemmo giù verso casa mia – ricorda -. Ci accorgemmo che l’acqua stava defluendo. La casa però non c’era più, e questo provocò un’angoscia grande, mentre la macelleria era rimasta in piedi. Cercando di arrivare prima, caddi in un fosso creato da uno scarico di fognature fatto qualche giorno prima. Trovai il nonno ferito e al mattino, con i primi soccorritori, gli elicotteri fecero un carico di feriti. Il nonno venne portato all’ospedale di Pieve di Cadore, ma dopo alcuni mesi morì”.

“Mia nonna venne ritrovata dopo 5 ore sullo scantinato – prosegue -, inzuppata di fango e bagnata. Ricordo che si lamentava che i carri armati tedeschi non l’avevano fatta dormire quella notte. Erano passati pochi anni dalla fine della guerra e lei, memore di questa vicenda, pensò che fossero passati i carri armati. Mia mamma, purtroppo, non venne trovata. Al cimitero di Fortogna adesso io ho 14 familiari, solo 7 sono stati trovati. I primi 20 giorni dopo la Tragedia li ho vissuti tra il Piave e il cimitero dove ho assistito a scene veramente orribili e drammatiche, come quelle della gente che si contendeva un cadavere”.

“Mia moglie arrivò dopo alcuni giorni convinta di non trovarmi più – sottolinea -. Siamo stati fortunati, ci siamo rincontrati e mi ha ridato la vita. Però, quando sarà ora del parto, perderà il figlio. Mio padre invece era in Africa per lavoro. Dopo alcuni giorni, arrivò: aveva perso il papà, due fratelli, due sorelle di mia mamma con mariti e figli. Aveva 52 anni e quando arrivò non trovò più la moglie, la casa e tutto il resto. Dalla rabbia e dal dolore visse tre anni e morì di crepacuore. Quella fu la sorte di tanti Longaronesi e di tutti i paesi limitrofi”.

“Le vedove seppero reagire di più – continua -, rifarsi una vita e aiutare qualche vedovo a riavere fiducia. Mancò l’aiuto istituzionale, ma dobbiamo tanta gratitudine al popolo italiano che è stato di una generosità immensa dando molto a noi dal punto di vista economico e morale. C’erano fabbriche che dedicarono decine di ore per la causa del Vajont”.

“Purtroppo – conclude -, le istituzioni capirono che c’era un business da gestire e gli organi di stampa, che all’epoca erano un po’ tutti collusi con il potere economico e politico, non lesinarono titoli cubitali come ‘I superstiti con le tasche piene potranno piangere meglio‘. A volte mi vergognavo di dire di essere un sopravvissuto. Era meglio tacere, almeno avevi la possibilità di conservare la dignità del dolore”.

(Autore: Andrea Berton)
(Foto e video: Andrea Berton)
(Articolo e foto di proprietà di Dplay Srl)
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