E’ la sera di Santo Stefano. Arrivano alle 20, scaglionati per gruppi, accompagnati, da soli. Sono richiedenti asilo, persone senza fissa dimora, anziani, ragazze madri, famiglie indigenti, tutti provenienti da varie realtà del Trevigiano. Prendono posto nelle quattro tavolate rosse che si allungano per lo stanzone della sede degli Alpini del gruppo Maset di Conegliano, accanto alle piscine comunali. Un segnaposto per ognuno con scritto il proprio nome. Un nome che durante l’anno molti di loro non sentono mai pronunciare.
Qualche ora prima Silvano Contessotto, responsabile di Sant’Egidio Conegliano, aveva fatto un discorso ai nuovi volontari, quelli che avrebbero partecipato per la prima volta a una cena con i poveri: “Non siamo un’azienda, non ci interessa fare le cose perfettamente. Lasciamo stare le tensioni. Se qualcosa va storto non è un problema, l’importante è stare col sorriso e parlare con loro: stasera siamo tutti una grande famiglia. Vedrete come sarà più bello dare che ricevere”.
Ogni volontario ha un proprio incarico: c’è chi servirà ai tavoli, chi siederà in mezzo agli ospiti, chi distribuirà i regali. Ma il vero compito di ciascuno è uno solo: incontrare l’altro, spogliarlo dell’etichetta di “povero”, “senzatetto”, “profugo”. Far sentire inclusi quelli che una società esclude. Perché ogni giorno dell’anno un povero è solo, ma il giorno di Natale lo è ancora di più. Quindi “girate, parlate” è l’esortazione che corre tra i tavoli. Un volontario l’ha capito quando chiede “Il calendario musulmano quando inizia?” a un gruppo di profughi pakistani che ancora masticano poco la nostra lingua. Se a parole non ci si intende ci prova con i numeri scarabocchiati su un foglio. L’incontro sta tutto lì, in quello sforzo di comunicazione.
Per farlo però bisogna far cadere il velo d’imbarazzo e di naturale timidezza che coglie ciascuno alla sua prima volta. In testa sorgono mille interrogativi diversi, ma ce n’è uno, forse, che prevale su tutti gli altri: cos’ho da dire io, che tutto sommato vivo una vita fortunata, a un profugo che se l’è fatta a piedi dal Pakistan all’Italia? O a un senzatetto che d’inverno muore di freddo e d’estate per il troppo caldo? Può essere più facile se ti imbatti in un espansivo come B., da tanti anni in strada, che azzarda senza paura il primo passo: allunga la mano e si presenta: “Ciao, sono B., che mi racconti?”. Altrimenti secondo Alice Visintin, volontaria di Sant’Egidio Treviso, un “Ciao, come va?” azzera ogni distinzione. E non è importante ricostruire la storia dell’uomo o della donna che si ha davanti. “A volte questo risponde a un’esigenza di trovare risposte per la nostra vita” precisa Valerio Delfino, responsabile della Comunità di Sant’Egidio Treviso. Altre volte, spinti da propositi meno genuini, si vuole scavare nella vita di chi versa una condizione di fragilità “per capire se sto facendo bene ad aiutarlo” o se invece è un uomo che mi inganna con le sue sofferenze. L’errore più comune è partire già dal pregiudizio per cui “il povero se l’è meritata”.
Trascorrere il Natale con i poveri è una tradizione della Comunità di Sant’Egidio da quando un esiguo numero di poveri fu accolto attorno alla tavola imbandita a festa nella Basilica di Santa Maria di Trastevere. Erano anziani che avrebbero passato soli il Natale, o persone senza fissa dimora conosciute per i vicoli di Roma. Lo scopo da allora è sempre stato lo stesso: dare l’idea della festa in famiglia, dello scambio di regali per chi non ne riceve mai. Regali su cui è apposta rigorosamente un’etichetta con il nome del destinatario. “E’ importantissimo. Il nome identifica, fa dire ‘questo pacchetto è per me’” spiega Contessotto.
Così anche quest’anno la Comunità di Sant’Egidio di Treviso e Conegliano ha rinnovato i suoi appuntamenti durante le festività: la sera del 24 dicembre al Seminario vescovile di Treviso erano circa 250 le persone sedute a tavola, tra poveri della strada, profughi accolti nell’Hub della Caserma Serena, famiglie indigenti che la Comunità segue tutto l’anno, anziani e persone che vivono la povertà pur avendo un tetto sulla testa. In parallelo nelle stesse ore nella parrocchia dell’Immacolata nel quartiere di Santa Bona erano invece centocinquanta: una trentina di giovani volontari (ragazzi delle scuole superiori e dell’università) e famiglie i cui bambini frequentano ogni venerdì pomeriggio la Scuola della Pace, un progetto dei Giovani per la Pace di Sant’Egidio che coinvolge i bambini dei quartieri più poveri in una specie di “doposcuola” che oltre a fungere da sostegno scolastico diventa anche palestra in cui misurarsi con i valori della solidarietà, del rispetto, della pace.
In tutto quel movimento caotico di bambini che saltano, gridano, giocano, Aurora Toniolo, del gruppo Giovani per la Pace di Sant’Egidio Treviso, si ferma e si prende un momento per osservare quello che le sta intorno: “E’ stato bellissimo. Ho visto tantissime persone con sorrisi enormi parlare con altre che non conoscevano legate dall’amicizia della Comunità, famiglie che per una volta non pensavano ai propri problemi ma stavano insieme agli altri, contente; bambini correre e ballare in giro per il salone che non vedevano l’ora che arrivasse Babbo Natale, famiglie musulmane e atee che non credono al Natale ma percepivano la cena e il regalo come un momento di amicizia e un gesto di pace tra le religioni”. Lo ribadisce anche Alice Visintin, quest’anno organizzatrice della cena: “Intorno a quella tavola invitiamo dal cristiano al musulmano. Si crea un clima di famiglia in cui la festa è di tutti”. Quanto al fatto che non è il solito Natale tradizionalmente passato in famiglia prosegue: “Quei bambini, quelle famiglie, le vediamo ogni venerdì. Tu entri a far parte della loro vita, quindi diventano un po’ parte della tua famiglia. Loro ti riconoscono come il punto di riferimento nel quartiere”.
Anche Treviso ha festeggiato Santo Stefano, ma stavolta seduti a tavola nell’Oratorio di San Martino erano giovani della Comunità tra i 18 e i 30 anni e i profughi della Caserma Serena a cui la Comunità di Sant’Egidio fa lezioni di italiano in quello che a loro piace chiamare “Sabato dell’Amicizia”. “Quando ho iniziato l’attività della scuola di italiano ho conosciuto ragazzi carichi di entusiasmo e pieni di voglia di imparare”, racconta Lavinia Boldrin, che insegna alla Scuola di italiano: “Quando mi è stato proposto di partecipare a questa cena di Natale insieme non ho esitato a dire di sì, perché volevo far provare il calore e la leggerezza delle feste a questi ragazzi così lontani dalle loro famiglie. Cantare e ballare insieme le canzoni dei loro Paesi mi ha dato una dimostrazione di come la barriera linguistica che ci divide scompaia quando c’è di mezzo la musica e la voglia di divertirsi”.
A questi appuntamenti, ai quali si è aggiunto il tradizionale cenone di Capodanno del 31 dicembre, seguirà il pranzo dell’Epifania sabato prossimo 6 gennaio.
La Cena di Natale può essere la parentesi di una sera oppure diventare l’inizio di qualcosa di più. Delfino racconta: “Ho trovato la Comunità proprio la Vigilia di Natale. Mi trovavo gonfio del cibo preso, le orecchie stordite dal vociare dei parenti, ma dentro vuoto. Volevo qualcosa di più vero, che avesse un senso. E questo l’ho trovato stando a contatto con i poveri. E’ una controtendenza oggi, non si parla più del vero senso del Natale…”. Da volontario, Stefano Chinellato parla del servizio come di “una ricarica spirituale”.
Ogni festa della Comunità conserva la propria unicità. “Tutti gli anni è un patto a sé, mai monotono, ripetitivo, stimolante – assicura Contessotto -. Le storie sono diverse, nuove. Ascoltare è importante. L’importanza non è la cena in se stessa, è l’atmosfera, il clima che si crea, sentirsi a casa, a proprio agio, nella più totale libertà di esprimere anche la propria gioia”. Al centro di tutto c’è la persona. Perché, come dice Alice, “un senzatetto lo salvi con l’amicizia, non con il pasto”.
(Foto: Comunità di Sant’Egidio).
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