La rocambolesca fuga di un elefante a Venezia

Dettaglio della copertina dell’Elefanteide di P. Buratti ed. Filippi

La curiosità e la meraviglia suscitate dagli animali esotici sono sempre andate di pari passo con il loro sfruttamento da parte di soggetti senza scrupoli. I combattimenti fra belve e gladiatori, la tauromachia, le cacce di corte, i serragli itineranti e gli spettacoli circensi sono soltanto alcuni dei tanti contesti nei quali tigri, leoni, giraffe, foche e molti altri animali sono stati sacrificati sull’altare del divertimento e del lucro.

Fra le specie esotiche più ammirate in Europa vi è sicuramente l’elefante: l’aspetto imponente e bizzarro, la forza prodigiosa e l’indole mansueta se da un lato hanno contribuito a far amare il pachiderma, dall’altro lo hanno reso un perfetto “fenomeno da baraccone”.   

A Venezia, fulcro di scambi con il vicino e il lontano Oriente, di animali strani ne devono essere sbarcati parecchi, elefanti compresi; ma ciò che accadde nel 1819, in piena dominazione asburgica, ha davvero dell’incredibile. Alessandro Marzo Magno, affermato storico della Serenissima, si è rivelato ancora una volta una preziosa miniera di informazioni utili a ricostruire l’episodio con dovizia di particolari.

Il 15 marzo 1819 sulla Riva degli Schiavoni le strutture in legno posizionate per il Carnevale non erano state ancora smantellate poiché era in programma la visita dell’imperatore Francesco I d’Austria. In uno dei ricoveri trovava albergo un docile elefante indiano, appartenuto al primo re del Wüttenberg e, dopo la morte del sovrano, acquistato da un impresario scandinavo.

La permanenza in uno spazio angusto e le ripetute salve di cannone sparate per rendere gli onori alla delegazione imperiale finirono con lo spaventare il pachiderma che prese a manifestare segni di insofferenza sempre più evidenti. Gli spaventosi e imbarazzanti barriti del bestione convinsero le autorità a disporne l’immediato allontanamento dal luogo della cerimonia.

Facile più a dirsi che a farsi: l’elefante era cocciuto e non voleva saperne di salire a bordo di una chiatta appositamente predisposta. A notte inoltrata, dopo dieci ore di tentativi inutili, l’audacia di un giovane rovigotto sembrò rivelarsi provvidenziale per superare l’impasse. Il ragazzo, mostrando al pachiderma un pezzo di pane, lo convinse a seguirlo, ma quando tutto sembrava andare per il verso giusto accadde l’irreparabile: l’elefante, imbizzarritosi improvvisamente, caricò furiosamente il giovanotto.

Nelle parole dello storico Emmanuele Antonio Cicogna si può cogliere tutta la drammaticità di quei momenti: “Lo attorcigliò attraverso il corpo colla sua proboscide, lo stese a terra, lo calpestò montandolo tutto. Mille grida mandava al cielo l’infelice mezzo franito nell’ossa e nel corpo, cosicché, condotto al luogo di sua abitazione, dopo quattro ore di dolori, confessato, comunicato, e unto coll’olio santo morì»  

Divenuto oramai incontenibile, l’elefante fuggì fra le calli del centro storico dando inizio a una caccia che durerà tre giorni. Gendarmi e soldati fecero fuoco contro il pachiderma sortendo l’unico effetto di scalfirne appena la spessa cotenna e accrescerne la furia. Le fucilate, osserva il Cicogna: “non furono di alcuno effetto buono, anzi fecer peggio, perché la bestia fu più cruda di prima”.

Giuseppe Tassini, autore delle “Curiosità veneziane”, si sofferma sulla via di fuga dell’animale che, “involandosi a’ suoi persecutori” imboccò la Calle del Forno Vecchio, irruppe in un’abitazione, frantumò la vera di un pozzo e crollò al suolo dopo aver tentato di salire una scala in legno. In quella circostanza gli furono scaricate addosso molte palle di fucile che, anziché “ferirne la durissima pelle” penetrano in una dimora sfiorando una “povera vedova” e i suoi “quattro teneri figliuoli”.

La vicenda assunse toni tragicomici quando il povero elefante, sentendosi braccato, fracassò un paio di casette di legno, divorò la mercanzia di un ortolano, invase una caffetteria e si abbeverò non è chiaro se d’acqua o di altre bevande. Circondato e colpito da decine di schioppettate l’animale crollò apparentemente esanime per poi rialzarsi improvvisamente e continuare la sua corsa verso la chiesa di Sant’Antonino nella quale si rifugiò dopo aver sfondato il portone.

L’elefante, narra il Cicogna, “Fracassa molte panche, e la pila dell’acqua santa; rompe in quattro luoghi il marmoreo pavimento, ed altri molti vi commette guasti. Finalmente spacca il coperchio d’un sepolcro, e in esso cade colle gambe posteriori”.

A questo punto il povero animale non aveva più via di scampo: con il permesso del Patriarca si aprì un varco sulla parete della chiesa e si piazzò una colubrina. Il fuoco d’artiglieria pose fine all’incubo.

L’elefanticidio ebbe un epilogo per certi versi più nobile. La carcassa del pachiderma, tratta con fatica all’esterno di Sant’Antonino, venne portata al Lido coperta di stuoie per poi essere scuoiata. Lo scheletro, acquistato dal direttore del gabinetto di storia naturale di Padova, è tutt’ora esposto nel Museo della Natura e dell’Uomo dell’università patavina. Della pelle, forse deteriorata, non si sa più nulla.

A distanza di oltre due secoli la rocambolesca fuga dell’elefante continua a ispirare pièce teatrali e componimenti letterari. All’epoca divenne simbolo dell’insofferenza dei veneziani nei confronti della dominazione austriaca. Fra gli autori che approfittarono delle gesta del pachiderma per deridere le autorità viennesi vi è Pietro Buratti (1772 – 1832), autore del componimento “L’elefante. Storia verissima”: centoquattro sferzanti ottave che ripercorrono la storia di quel “caro Elefanton” che in compagnia di “lioni, tigri e scimioti” non si era rassegnato a vivere “ubidiente al comando del paron”.

(Autore e foto: Marcello Marzani).
Articolo di proprietà di: Dplay Srl
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