Lo spunto per il titolo della nostra riflessione odierna ci arriva direttamente dall’opera omonima del filosofo Italo Mancini (1925 – 1993), uno sguardo alto sul senso della persona e il suo condividere la vita di tutti e di ciascuno proprio attraverso il volto, la proiezione più semplice e immediata, e nel contempo la più significativa, della sua originale, autentica e irripetibile espressione umana ed esistenziale.
Il tutto viene arricchito da un auspicio, che rappresenta insieme un invito, una sorta di appello: tornino i volti, riprendano il loro ruolo centrale, siano il motivo fondamentale della rinascita di rapporti di pace e di bene fra le persone, abbiano la capacità e la forza di raccontare ancora fiducia e speranza nell’”homo homini amicus”, prossimo, alleato, solidale nei valori e nei gesti che contano davvero. Sembra tutto scontato, di prassi, di abitudine.
Quei volti di persone che incontriamo ogni giorno, e che formano la trama costante delle nostre relazioni individuali, familiari, lavorative e sociali. Quante storie raccontano, di fatiche, inquietudini, spesso anche di profonde infelicità. Tante altre volte, narrano invece le gioie importanti, le serenità di fondo, il sorriso benevolo e attraente, il cuore affacciato sulle vite degli altri.
Ascoltando, dialogando, mettendo il volto dell’uno nell’altro, quasi affidando ad occhi luminosi le nostre ansie, le nostre preoccupazioni, anche la nostra felicità. E di tutto questo sentiamo la necessità e l’urgenza proprio mentre lo slogan preferito – nella comunicazione applicata a tanti ambiti del nostro vivere ordinario – è quello del “metterci la faccia”, sottolineando il fatto che non siamo anonimi, ci assumiamo le nostre responsabilità, non deleghiamo ad altri i nostri impegni e non mettiamo comode maschere a nascondere i nostri veri sentimenti e le cose in cui crediamo.
Bene, tutto bene, salvo il termine “faccia”, che anche nella sua etimologia latina sembra alludere più che altro alla forma, all’aspetto, mentre noi abbiamo bisogno di volti espressivi, di vita vera e concreta, di persone che con l’immagine autentica di se stesse abbiano la capacità di dettare accoglienza, di generare sentimenti, di creare uno stile di gesti favorevoli. Insomma, avvertiamo l’esigenza di un nuovo umanesimo che riparte dalla verità dei volti di ciascuno, per ricreare le basi di una coesione sociale che non sia di “facciata”, appunto, ma solida, espressiva, discorsiva e distensiva, attenta alle dinamiche quotidiane dei singoli e della comunità. Non è facile, sicuramente. Ma credo non si possa eccepire, con lucidità e dolcezza, che la nostre vite sono i volti, e di essi ci nutriamo, di essi si alimenta il nostro stesso respiro. Ricercarli, sempre e comunque, e farne memoria vitale al calar della sera non è cedere a vuoti sentimentalismi.
Al contrario, è toccare il cuore delle cose. Questo percorso interiore si tramuta in salvezza dall’assurda disavventura di una vita dove succede che, a causa di un impallidire sempre più frequente dei volti, l’organizzazione conti ormai più della persona, l’aggregato più dell’uomo e della donna nella loro singolare bellezza e autenticità, seguendo purtroppo la logica moderna per cui “l’individuo, ogni tu e ogni io, viene sacrificato sull’altare delle totalità generali, che finiscono nelle esperienze totalitarie e nelle logiche della guerra” (Italo Mancini). “Tornino i volti”, dunque. E la parola suona come un invito ad abbandonare vecchie e astratte definizioni dell’uomo, quelle definizioni che, nella loro fredda logicità, non seppero fermare le più assurde aberrazioni, le più efferate violazioni dell’immagine dell’uomo sulla terra.
Quali volti, si chiedeva ancora Mancini, che rispondeva così: “Un volto da stabilire in sede teorica, da rispettare in sede morale, da accarezzare in sede affettiva”. Ritorniamo pertanto a contemplare i volti. Quelli vicini e quelli lontani, quelli di casa e quelli fuori casa, quelli sereni e, ancor più, come detto, quelli segnati da fatica e preoccupazione. Ritorniamo a incontrare i volti in silenzio, a lungo, o con parole di bene, senza definirli, senza possederli con i nostri giudizi, coltivando in noi stessi le loro storie. Quelle conosciute, e specialmente quelle non conosciute, motivo in più per usare gentilezza e comprensione, sempre. Perché oggi continuiamo a stupirci se riceviamo gesti di educazione e attenzione, lo sguardo buono, la premura e la delicatezza, che in tante situazioni sembrano invece scomparsi dal novero delle pratiche quotidiane, nonostante a tutti faccia piacere uno stile di vita non urlato, discreto, garbato e accogliente.
E magari facciamo in modo di curare il nostro volto anche nella sua immagine, perché sia espressivo e pronto all’incontro con l’altro, per una forma di doveroso rispetto, perché possa parlare in maniera semplice ed eloquente, ma senza artifizi, della nostra bellezza interiore. L’accorato appello di Mancini, dunque, risuona oggi per ciascuno di noi, in un tempo in cui l’immagine predomina e però il sistema complessivo della comunicazione sembra andare oltre le storie e le verità dei singoli, e annullare tutto in una massa indistinta di forme e di social. Prevalgono ovunque i colori, infiniti, e forse sentiamo nostalgia di foto in bianco e nero. Con i volti impressi, e le storie ritratte, i sentimenti marcati, una certa fiducia e lo sguardo lungo di presente e di futuro. Oltre le facce, oggi servono i volti. Tornino i volti.
(Foto: archivio Qdpnews.it).
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