Se il 1917-1918 è chiamato ancor oggi “Anno della fame” un motivo c’è: in quei dodici mesi nel Vittoriese si soffrì e si morì di fame sia tra i civili sia tra i soldati austro-ungarici occupanti.
Una storia vera, quasi impossibile da credere a cent’anni di distanza. Viveri ce n’erano sempre meno, il poco che si trovava nei campi veniva requisito dall’invasore, le malattie infettive erano all’ordine del giorno, come le morti improvvise a tutte le età.
In quell’estate 1918 la situazione precipita in tutto il Veneto occupato. A raccontare una storia che va ben oltre il limite della drammaticità è Giuseppe Boschet, un bambino di Seren del Grappa, il quale scrive: “Una volta siamo quasi tutti morti. Io urlavo dal gran mal di pancia, mio zio Silvio si reoltava per terra dal male, mia nonna era fin viola, piangeva e gridava. Alcuni giorni dopo mi raccontarono che mio nonno e Meno Meno avevano sentito dire che a Imer i tedeschi avevano sepolito un cavallo e, siccome non c’era più niente da mangiare e morivamo quasi di fame, pensarono di andare a vedere. Hanno trovato il cavallo morto e ne hanno tagliato via un quarto per uno. Loro sono quasi morti dalla fatica a portarlo a casa e poi siamo quasi morti tutti a mangiarlo. Un male come quello di quella volta io non lo auguro neanche ai cani e me lo ricorderò per sempre”.
Nel suo diario, il 26 luglio 1918, la valdobbiadenese Caterina Arrigoni precisa: “Chi ha la fortuna di avere un pugno di frumento lo mangia bollito nell’acqua, senz’altro condimento di qualche grano di sale. E per il resto erbe, erbe e sempre erbe. E dico erbe, non ortaglie, perché quelle sono rarissime. Naturalmente le morti sono sempre più frequenti ed ogni famiglia conta vari ammalati. Tanto più che per molti è impossibile procurarsi la medicina prescritta perché è venduta a prezzi inarrivabili per finanze completamente esaurite”.
Cinque giorni dopo la situazione era peggiorata: “Da molti giorni non è più possibile trovare carne a nessun prezzo ed in nessun modo. C’è di peggio: nessuna vaga speranza nemmeno per l’avvenire! Altrettanto dicasi per la polenta. Tutti, allora, s’ingegnano a cuocere il pane sotto la cenere: siamo tornati ai tempi biblici. Ma, per stomachi indeboliti come i nostri, come riesce di difficile digestione!”.
Nell’agosto del ’18 le morti sono all’ordine del giorno e sempre più numerose. Lo testimonia ancora una volta Caterina Arrigoni: “Quali orrori a Follina! Non si contano più i morti per fame! La popolazione non ottiene nulla dal Comando austriaco e dalla pietà dei singoli soldati: li minacciano perfino con il coltello e dovunque ci sono le guardie sparse nei campi che impediscono ai proprietari di raccogliere il frutto del proprio lavoro. A Miane, Cison, Follina otto, dieci, dodici morti al giorno per paese. Dal solo ospedale di Serravalle da dieci a quindici al giorno, a Cappella, nella famiglia di Alfonso Berra, tre morti in quattro giorni”.
Anche gli invasori non se la passavano bene; lo conferma il piccolo Boschet: “Avevo un amico soldato che era magro, ma magro che si potevano contare tutti i ossi e aveva una faccia bianca bianca come una camicia. Un giorno, mentre guardavo avidamente la sua gavetta, mi ha preso in braccio, poi lui non ha più mangiato e mi ha dato tutto quello che c’era dentro. Da quel giorno andavo sempre a mangiare da lui perché spesso rinunciava al suo boccone per darlo a me. Quel soldato me lo ricorderò per sempre e lo riconoscerei anche in mezzo a tanta gente al mercato, senza di lui io potrei essere morto di fame”.
“Fame, fame, fame” scriveranno moltissimi testimoni; basti pensare che soltanto a Valdobbiadene, dopo l’armistizio del 4 novembre 1918, non torneranno mai più alle proprie case 484 persone.
(Fonte: Luca Nardi © Qdpnews.it).
(Foto: per gentile concessione di Luca Nardi)
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