Una volta il presepe rimaneva il segno tangibile delle nostre tradizioni, ora rischia di diventare un’abitudine svuotata dal suo significato originario.
Per Gerolamo Vardanega globetrotter per lavoro in 26 paesi del mondo, il presepe rimane un grosso ricordo, tra nostalgia e giovinezza.
“Abitavo nella casa del nonno Piero e avevo sei o sette anni, quando ho fatto il primo presepe – racconta Gerolamo – Sotto la scala era il posto giusto per farlo, e noi ragazzi quando iniziavano le vacanze di Natale dovevamo andare a trovare il muschio per i campi, assieme a qualche pungitopo con le palline rosse per i decori. Un pezzo di specchio rotto per fare il lago, e la carta stagnola per mettere in evidenza i fossi.
E poi un sacchetto vuoto di cemento da pitturare con il lucido per scarpe per le montagne, e la farina fecola per la neve. Infine la carta velina rossa per il fuoco dei pastori, assieme ad un altro foglio di quella celeste per fare il cielo.
La carta velina era l’unica componente che andavamo a comperare in cartoleria. Si iniziava il pomeriggio della vigilia, e si andava avanti sino alle nove di sera. Quando tutto era pronto si andava alla ricerca delle statuine riposte l’anno prima nel granaio, in una scatola di scarpe avvolte in una carta di giornale. Le statuine erano di gesso, e bisognava fare attenzione a non romperle.
Qualcuna era scrostata, qualche altra era priva di una gamba o di un braccio. Per le pecore senza gli arti, si cercava il modo di farle rimanere in piedi in mezzo al muschio. Terminato il lavoro si andava a provare le luci, quella bianca sulla capanna e la rossa sul fuoco dei pastori e quella celeste in fondo, in mezzo alle montagne per rappresentare l’alba. Quando tutto era al suo posto si metteva Gesù Bambino, ma al mattino di Natale, davanti al presepio non c’era nessun regalo a differenza di oggi” è il racconto di Gerolamo.
A quei tempi, non c’erano nemmeno gli alberi di Natale, una tradizione che viene dal Nord Europa, e che Gerolamo ho voluto conoscere quando ha lavorato in un cantiere in Islanda per capire la “Festa della Luce” del 6 gennaio, una festa arcaica e precristiana.
“Di questi tempi il Natale è diventato il palcoscenico delle proprie frustrazioni strumentali e politiche. – afferma – Presidi che non autorizzano il presepe per non urtare la sensibilità, di chi del presepio non importa niente, scolaresche che raccolgono firme anche tra compagni non cristiani per farlo, recite di Natale in cui Gesù Bambini viene cancellato, e chi protesta per mantenere la tradizione”.
“Negli ultimi 40 anni ho trascorso almeno una trentina di Natali in paesi non cristiani. Uno in particolare in Pakistan, dove i cristiani non possono professare apertamente la loro religione. – prosegue – Quell’anno a Pasqua in una delle poche chiese cattoliche, era esplosa una bomba che fece una decina di morti. Per Natale abbiamo invitato il prete pakistano a celebrare la messa in cantiere anche se lui non avrebbe potuto farlo“.
“Quel giorno non sono nemmeno andato a pranzo, ho preferito andare tra i profughi afgani. Come ripenso a quella messa di mezzanotte del 1978 nel Tempio di Possagno, quando ero appena rientrato dall’Iran dove era scoppiata la rivoluzione, e avevo visto la gente penzolare dai bracci delle gru in cantiere, e la guest-house dove abitavamo, presa d’assalto e distrutta prima di averci fatto uscire con quello che avevamo addosso, e con gli stessi vestiti sono arrivato in Italia”.
“Per questo oggi quando faccio il presepe anche seppur minimo, penso a quello ideato da San Francesco la notte del 24 dicembre 1223, il quale pensando di risvegliare la fede della popolazione locale, ha allestito una viva rappresentazione della Natività. Detesto questo Natale globalizzato mediatico, consumista, e finto umanitario” ha concluso Gerolamo Vardanega.
Proponiamo a seguire l’intervista a Vardanega realizzata da Qdpnews.it sulla sua particolare esperienza lavorativa.
(Fonte: Giovanni Negro © Qdpnews.it).
(Foto: web).
(Video: archivio Qdpnews.it).
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