È possibile che un capitolo dalla grande storia del ‘900 abbia avuto il suo epilogo nel piccolo borgo di Tovena?
Che legame ci può essere tra Josef Stalin e le brigate partigiane che si sono battute sul versante prealpino trevigiano dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943?
Chi era realmente il leggendario capitano Monti? Si tratta di un vero e proprio enigma, al quale abbiamo cercato di dare una risposta.
Secondo le testimonianze riportate da Rinaldo Dal Mas nel suo libro “Sui sentieri della memoria”, nel luglio del 1944 due russi provenienti da Conegliano, arrivarono a Santa Ottilia a nord dell’abitato di Tovena, dove i partigiani del Battaglione Farnese avevano occupato due “casere” che fungevano da accampamento.
Da un primo sommario interrogatorio al quale furono sottoposti, uno si qualificò come capitano dell’Armata Rossa e l’altro come il maresciallo che lo accompagnava.
Quest’ultimo si era presentato con il nome di Peter e viene descritto come alto, biondo e di indole aperta. Il capitano invece era un uomo dalla pelle olivastra di media statura, colto e schivo; aveva un’aria malinconica e sosteneva di essere un ufficiale sovietico fuggito da un campo di concentramento.
A lui fu dato il nome di battaglia di Monti. Uomo d’azione e di poche parole, Monti presto si unisce alla Brigata Piave e qui conosce il “Barba”, leggendario combattente così chiamato per la sua barba fluente color rossiccio.
Il partigiano era noto per il suo spirito guerriero, tant’è che girava sempre armato e carico di munizioni. Nell’autunno del 1944 i due georgiani insieme ad altri partigiani vennero ospitati in una cascina a Refrontolo di proprietà della famiglia Liessi.
Il capitano Monti e Paola Liessi ebbero una relazione dalla quale nacque un figlio che il Monti non vide mai. Giorgio, questo il nome che fu dato al bambino, essendo la Liessi una ragazza madre, prese il cognome Zambon dal nonno.
Ma veniamo all’epilogo della vita del Monti. Il 6 di febbraio del 1945 un manipolo di partigiani, a seguito dei cruenti scontri di quei giorni, rimase con pochissime armi e praticamente senza munizioni, Il gruppo era composto da Monti (Giorgi Varazashvili), Barba (Giovanni Morandin), Castelli (Giuseppe Castelli) e da due alpini prelevati al presidio di Tarzo.
Proprio la presa della guarnigione di Tarzo da parte dei partigiani fece scattare l’azione di rappresaglia condotta dalle squadre e dai reparti fascisti che crearono una specie di cordone sanitario intorno all’ampia zona collinare che va da Refrontolo a Formeniga, passando per Tarzo e Corbanese, mediante l’istituzione di posti di blocco lungo tutte le strade e i sentieri fino a passare al rastrellamento vero e proprio.
Di fronte a un nemico così numeroso e bene armato i partigiani cercarono di resistere, ma vennero sopraffatti. A quel punto decisero di sganciarsi e si diressero verso Vittorio Veneto, ma in località Piai sulle Perdonanze furono intercettati da uno squadrone. Barba e Monti si tolsero la vita facendosi saltare in aria con una bomba a mano. I militi della MAS, felici per la “vittoria”, trascinarono i partigiani con delle carriole da letame, chiamandoli “briganti”.
Castelli invece, fu fatto prigioniero, tradotto in caserma a Vittorio Veneto e successivamente passato alle armi in piazza Ettore Muti (oggi San Michele di Salsa). Le spoglie del Monti, stando alle testimonianze dei partigiani, vennero sepolte appena fuori dal cimitero di Tovena.
Ma qui comincia il mistero. Il figlio di Monti, giunto all’età di 17 anni, decide di trasferire la salma del padre all’interno del camposanto, ma all’atto della riesumazione, del corpo non si trovò nessuna traccia.
Il luogo era stato marcato piantumando un cipresso, pertanto non si poteva sbagliare. Il custode del cimitero di allora raccontò di aver visto strani movimenti di notte proprio in quel luogo, con tanto di auto che fuggiva in piena notte a tutta velocità verso il passo del San Boldo.
Una domanda a questo punto sorge spontanea: chi era realmente il capitano Monti? Quale la sua vera identità? Stando alla bibliografia ufficiale il Capitano Monti rispondeva al nome di Giorgi Varazashvili, nato il 12 maggio 1914 in Georgia.
Si diplomò nel 1940 presso l’Accademia di Stato di Tbilisi specializzandosi in scultura. Nel 1940 si arruolò nell’Armata Rossa. Durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, fu catturato e tradotto in un campo di concentramento dal quale nel 1944 riuscì a evadere per unirsi ai partigiani.
Ma era realmente lui il capitano Monti che morì a Vittorio Veneto il 6 febbraio 1945? Il secondo enigma riguarda la non corrispondenza tra alcune caratteristiche di Giorgi Varazashvili se confrontate con quelle del Capitano Monti.
Dalla versione georgiana della biografia di Giorgi Varazashvili si deduce che era nato da una famiglia povera di contadini e che, seppur con mezzo dito dell’indice amputato, era riuscito a plasmare varie figure di creta.
Dalle foto in cui compare il capitano Monti, scattate durante la resistenza, non si nota alcuna amputazione e neanche Paola Liessi la ricorda, pur rammentando altre ferite più o meno gravi del Monti, come quella alla spalla.
Inoltre dalla biografia si apprende che Giorgi Varazashvili era un semplice soldato, non un capitano d’artiglieria come invece si definiva il Monti parlando in più occasioni con i compagni partigiani. Ma la vicenda non si ferma qui.
Nel dicembre 1988 Bartolomeo De Zorzi, personaggio legato ai servizi segreti italiani, invia una lettera a Giorgio Zambon, figlio del Monti e di Paola Liessi, per “cercare di fare chiarezza”. In breve, secondo De Zorzi la piastrina di Giorgi Varazashvili sarebbe stata “solo usata” dal Monti per prendere un’identità non sua.
Ma allora, chi si celava dietro il Capitano Monti? Dagli anni ‘60 dello scorso secolo ad oggi è cominciata ad affiorare una ricostruzione storica in base alla quale il Capitano Monti in realtà potrebbe essere nientemeno che Jacov figlio di Stalin.
Questa teoria è stata ripresa e sviluppata negli ultimi anni da Lucio Tarzariol che, nel suo libro “Jacov figlio di Stalin partigiano in Italia”, oltre a sposare personalmente la tesi, riporta numerose testimonianze a riprova della stessa.
Il figlio primogenito di Stalin, Jakov Iosifovič Džugašvi questo il suo nome completo, in realtà ebbe una vita travagliata. Rimasto orfano della madre che morì di tifo a pochi mesi dalla nascita nel 1907, fu allevato dalla zia materna a Tbilisi.
A quattordici anni lasciò la Georgia e si trasferì a Mosca per imparare il russo e per ricevere un’istruzione superiore, dove visse con Stalin e con Nadezhda Alliluyeva, sua seconda moglie. I rapporti con il padre non furono mai buoni tanto che, dopo l’ennesimo litigio, esasperato dal dispotismo del padre, tentò il suicidio con un colpo di pistola alla testa riportando solo qualche ferita.
Sembra che il commento laconico di Stalin fu “Non sa nemmeno sparare diritto”. A un ricevimento conobbe Yulia Meltzer, ballerina ebrea di Odessa, che poi diventerà sua moglie e gli darà due figli. Durante la seconda guerra mondiale Jakov si arruolò nell’Armata Rossa.
Nel 1941, quando la Germania invase l’Unione Sovietica, fu catturato durante la battaglia di Smolensk. Fu portato a Hammelburg, e da lì nel 1942 a Lubecca fino a finire nel campo di concentramento di Sachsenhausen in Germania. Qualunque altro padre avrebbe fatto l’impossibile per liberare il figlio, ma non Stalin.
Il dittatore lasciò il figlio al proprio destino non accettando l’offerta dei tedeschi, che volevano scambiare Jakov con un importante Feldmaresciallo o forse addirittura con il nipote di Hitler. Pare che Stalin affermò di non poter concludere uno scambio tra un generale e un tenente, e inoltre che suo figlio non era diverso dai “milioni di figli” sovietici fatti prigionieri dai tedeschi. In realtà Stalin era convinto che Jakov non fosse stato catturato, ma che si fosse arreso al nemico su consiglio della moglie, che fu poi da lui imprigionata proprio con questa accusa.
Per salvaguardare la propria immagine il dittatore rese pubblica la versione della cattura (anche perché in Unione Sovietica la resa era equiparata ad un tradimento). Alla fine del conflitto, migliaia di prigionieri di guerra sovietici ritornati in patria, furono mandati direttamente in Siberia con l’accusa di essersi arresi al nemico.
Nel 2013 il giornale tedesco Der Spiegel basandosi su fonti germanico-russe, ha avvalorato la resa, sostenendo che Jacov si tolse l’uniforme e si vestì con abiti civili per arrendendosi ai tedeschi. La cosa certa è che la cattura di Jakov e la sua deportazione in un campo di concentramento fu sfruttata dalla propaganda nazista che fece lanciare migliaia di volantini, diretti ai soldati sovietici, che recitavano: “Non versare il tuo sangue per Stalin! Suo figlio si è arreso! Se il figlio di Stalin ha salvato sé stesso, allora tu non sei obbligato a sacrificare te stesso!”
Ma come si concluse la prigionia di Jacov? La storia ufficiale narra la morte di Jacov come avvenuta nel campo di concentramento di Sachsenhausen nell’aprile del 1943, ma anche in questo caso non c’è chiarezza e sono almeno tre le versioni che riguardano la sua fine. La prima lo vuole morto fulminato contro la recinzione elettrificata durante un tentativo di fuga, come da dichiarazione ufficiale della propaganda tedesca del 1943.
La seconda lo dà come caduto sotto il fuoco delle guardie mentre correva verso il muro di cinta senza obbedire all’ordine di fermarsi, come da documenti del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
La terza narra il suo suicidio consumato lanciandosi contro la recinzione elettrificata, come scrissero il Sunday Times nel ’80 e il Telegraph nel 2001.
Ma perché Jacov si sarebbe dovuto suicidare? Le motivazioni secondo gli storici vanno da banali dissapori con i compagni di cella, al fatto che non riuscì a sopportare gli orrori e le stragi commesse dal padre durante il secondo conflitto mondiale.
L’unica cosa certa è che il corpo di Jacov non è mai stato ritrovato, e questo particolare potrebbe inficiare o quanto meno creare un dubbio su quanto finora asserito. Ma allora, si può ragionevolmente supporre che l’identità del capitano Monti fosse quella di Jacov il figlio di Stalin?
Lucio Tarzariol supporta la sua tesi portando una serie di indizi. Partendo dalla somiglianza tra il partigiano Monti giunto in Italia nel 1944 dalla Serbia e Jacov che la storia ci consegna morto in un lager nazista.
Il Tarzariol abbraccia la teoria secondo la quale Jacov sarebbe fuggito dal lager di Sachsenhausen verso la Serbia fino ad arrivare in Italia sotto la falsa identità di Giorgi Varazashvili. Tra le varie testimonianze raccolte dal Dal Mas e analizzate nel suo libro dal Tarzariol, fondamentale è il ritrovamento nel portafogli del Monti di alcune foto di famiglia che assomigliano straordinariamente alle foto pubbliche della famiglia di Stalin.
Lo stesso Peter, l’uomo ombra del capitano, aveva più volte alluso alle “belle foto” che il Monti teneva sempre con sé, aprendo ad una domanda: a che scopo conservare foto ricordo di una famiglia, se non è la propria?
Inoltre anche la misteriosa scomparsa del corpo del Monti da Tovena con tanto di trafugamento, non avrebbe senso se lo stesso appartenesse ad un semplice soldato georgiano, figlio di contadini. Gli abitanti di Tovena ricordano ancora le delegazioni georgiane che venivano di anno in anno a far visita alla tomba del Monti, eccessive per un soldato seppur morto per la causa partigiana. Inoltre rimane l’incredibile somiglianza tra il Monti e la sua discendenza con la famiglia di Stalin, oltre al profilo caratteriale e culturale che avvicina Monti a Jacov (dalla conoscenza di 5 lingue all’essere capitano d’artiglieria).
Terzariol si rifà ad alcune testimonianze raccolte dal Dal Mas secondo le quali lo stesso Monti, quando beveva un bicchiere di troppo, faceva chiare allusioni sulla sua appartenenza alla famiglia di Stalin, per non parlare della sua reticenza a compilare le schede anagrafiche ogni qual volta diventava necessario per la Brigata.
Paola Liessi ha sempre sostenuto che la calligrafia del capitano lasciata sul retro di una foto in suo possesso, che ritrae Monti e Peter con tanto di dedica al partigiano Parco, trova analogie con calligrafie attribuite a Jakov Džugašvi, oltre alla firma inequivocabile: Jacov. La Liessi inoltre afferma che parlando della sua famiglia il Monti accennò a una sorella, Svetlana, esattamente come la sorella di Jakov figlia di Stalin.
Anche la ferita nella zona alta della spalla del Monti, testimoniata dalla Liessi, combacia con la ferita alla spalla di Jakov Džugašvi. Inoltre che senso avrebbero avuto le continue visite in casa Liessi da parte dell’Ambasciata Sovietica interessata al figlio Giorgio, tali da costringerla ad andarsene di casa?
La Liessi sostiene anche di aver ricevuto la proposta da una segretaria dell’ambasciata Russa di cedere il bambino avuto dal capitano Monti per mandarlo a studiare in Unione Sovietica.
Perché provare a togliere il figlio alla madre se non fosse stato strategicamente rilevante come avrebbe potuto essere un eventuale nipote di Stalin? A sostenere fortemente la tesi di Tarzariol e ad aiutarlo nella raccolta delle testimonianze che vanno ad aggiungersi a quanto pubblicato dai giornali negli anni 60/70 e alle ricerche di Dal Mas, è stata Alessandra Zambon, figlia di Giorgio Zambon e nipote del capitano Monti.
A partire dagli anni ‘70 numerosi sono stati i viaggi in Unione Sovietica, prima e dopo l’insediamento di Gorbaciov, della famiglia Zambon, di Giorgio con la moglie Ennia e Alessandra, nel tentativo di dare veridicità alla presunta parentela con Stalin.
Questi viaggi portarono nell’era Gorbaciov alla designazione di un deputato georgiano incaricato a seguire la vicenda. Ma anche in questo caso non si è giunti a nulla. Allora una domanda sorge spontanea: perché ad oggi non è stato ancora effettuato un esame sul Dna di Alessandra Zambon in modo da porre la parola fine a questa intricata vicenda? Al termine della nostra inchiesta rimane una sola certezza: un georgiano con il nome di battaglia di “capitano Monti” è venuto a morire in Vallata per la libertà di tutti e il fatto che fosse o non fosse Jacov il figlio di Stalin non aggiunge e non toglie nulla al suo eroico gesto.
(Fonte: Giancarlo De Luca – Chiara Rainone © Qdpnews.it).
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