«Lungo le sponde del mio torrente
voglio che scendano i lucci argentati
non più i cadaveri dei soldati
portati in braccio dalla corrente»
Nella celebre canzone La guerra di Piero Fabrizio De André contrappone l’allegoria dei pesci che nuotano in libertà agli orrori dei conflitti, un tema di drammatica attualità. Protagonista della ballata è il luccio (Esox lucius), specie appartenente alla famiglia degli Esocidi e considerata sinonimo di voracità e ingordigia.
Pesce inconfondibile per il muso “a becco di papera”, la bocca larga provvista di una dentatura formidabile e la taglia che può superare il metro e mezzo di lunghezza per diverse decine di chili di peso, il luccio ha alimentato leggende e miti nei quali la sua ferocia è spesso sopravvalutata.
Il “pesce cane d’acqua dolce” ama bacini lacustri e fluviali limpidi, con poca o nessuna corrente, fondo sabbioso o melmoso, ricchezza di vegetazione nella quale si mimetizza grazie alla livrea bruno verdastra, pronto a tendere micidiali agguati. La sua alimentazione è costituita da pesci, crostacei, anfibi e rettili d’acqua. Gli esemplari più grossi possono ricorrere al cannibalismo e si ha notizia di lucci capaci di catturare uccelli acquatici e piccoli mammiferi.
I nemici del luccio sono soprattutto le malattie parassitarie, l’alterazione ambientale, la cementificazione. Gli esemplari più giovani possono essere predati da persici, siluri, pesci gatto e da uccelli come l’airone, il cormorano e la nitticora.
Numerosi e diversi fra loro i nomi dialettali: luss, luzh, luzzo, sengarìn o salgarìn, questi ultimi derivanti dall’abitudine del pesce di ripararsi fra i rami dei salici che crescono sulle sponde.
Preda ambita da dilettanti e professionisti, nella pesca tradizionale il luccio si catturava con reti (negosse), nasse, retini, bertovelli; nei laghi, di notte, si posizionavano lenze innescate con pesce vivo fissate a dischi di vimini (crìvoe o crìoe). Un’altra tecnica era la traina eseguita fissando la lenza alla sponda dell’imbarcazione e utilizzando esche artificiali metalliche munite di un fiocco rosso per imitare la preda sanguinante. I cucchiaini rotanti e ondulanti, oggi diffusissimi fra i pescatori sportivi, si realizzavano artigianalmente: alcuni collezionisti ne conservano degli esemplari ricavati da cartucce da guerra alle quali si fissava un amo ad ancoretta.
Antonio Ninni, naturalista di fine Ottocento, racconta che i pescatori di frodo catturavamo i grossi lucci in primavera, manovrando “con mirabile destrezza” un laccio di vimini fissato su una pertica. Un attrezzo altrettanto caratteristico era la cunèa, una rete a borsa posizionata a ridosso della vegetazione delle sponde.
Pesce dalle carni bianche, sode e saporite anche se piuttosto liscose, il luccio è migliore se pescato d’inverno: a San Valentìn el lusso move el codìn recita un noto proverbio. Alla fine del XIX secolo il prezzo del luccio si aggirava intorno a una lira per chilo, contro le 0.80 della carpa e le 3.50 della trota.
Tradizionalmente, nella Marca, il pesce viene servito lesso accompagnato dalla maionese o in salsa di pomodori, aglio e prezzemolo. Le uova di luccio, da consumare con cautela, sono apprezzate in Italia e all’estero: fresche, affumicate o salate ed essiccate come la bottarga; un cibo antico citato anche da Riccardo Bacchelli nel suo capolavoro Il Mulino del Po.
Resterebbe ancora molto da scrivere sul luccio, un pesce capace di affascinare pescatori, gastronomi, naturalisti e artisti. Una preda talmente ambita che lo stesso Gianni Morandi, interpretando Canzoni stonate, racconta di aver “preso un luccio grande che sembrava un drago”.
(Foto: Ente Parco Ticino).
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