Folgóre da San Gimignano (1270 – 1332), poeta contemporaneo di Dante Alighieri, include la pesca fra i piaceri della vita insieme alla caccia, al canto e al buon cibo. Rivolgendosi a un’allegra compagnia di amici immagina il loro divertimento in una peschiera d’anguille, trote, lamprede e salmoni, di déntali (dentici), dalfini e storïoni.
La lampreda è anche associata a scenari molto meno idilliaci e definita sul web “pesce degli orrori”, “schifoso pesce preistorico” addirittura “pesce più pericoloso del mondo”. Tutte considerazioni esagerate e inesatte visto che la lampreda, nonostante l’aspetto e le abitudini, non è un pesce bensì un rappresentante della classe degli Agnati o Ciclostomi, animali privi di mascella, con la bocca a ventosa, provvisti di una serie di caratteristici fori branchiali e con formazioni cartilaginee al posto delle ossa.
Le lamprede presenti in Italia sono sostanzialmente quattro: quella di mare (Petromyzon marinus) e quella di fiume (Lampetra fluviatilis); entrambe dopo la riproduzione tornano in mare. La lampreda di ruscello o padana (Lethenteron zanandreai) e quella minore o comune (Lampetra planeri), stanziali nelle acque dolci.
La lampreda marina, in veneto lanpredón, ha una livrea grigiastra simile all’anguilla e può superare il metro di lunghezza per oltre due chilogrammi di peso. Avvalendosi del caratteristico apparato boccale si attacca ai pesci, più raramente ai cetacei, dei quali succhia il sangue mantenuto fluido grazie a sostanze anticoagulanti. La vittima generalmente muore dopo l’allontanamento del parassita.
La lampreda fluviale, detta amprea, codula, bisatel, ombreta o lanprèa de sasso, riconoscibile per i riflessi argentati, raggiunge i 50 centimetri di lunghezza e 150 grammi di peso. Le sue abitudini alimentari sono uguali alla specie marina anche se talvolta è attratta dalle carogne di animali.
Di dimensioni decisamente più ridotte, massimo 20 centimetri, la lampreda padana a differenza delle precedenti non è un parassita e si nutre solo nella fase larvale filtrando i nutrienti dell’acqua.
La lampreda comune, in dialetto veneto subiòl, lunga 10 – 15 centimetri, è del tutto simile a quella padana e come questa non è un parassita. Le larve, dette ammoceti, trascorrono le loro giornate immerse nel fango del fondale e, dopo la metamorfosi, smettono definitivamente di nutrirsi.
In un saggio sulla pesca nel Trevigiano (1877) A. Ninni definisce occasionale la cattura della lampreda marina e afferma come la “fluviatile” popoli sia il Piave che il Sile. Il naturalista si sofferma sulle tre tecniche allora in voga per la cattura della “piccola lampreda” (L. planeri): prosciugamento dei fossati, scavi con la pala o con le mani nei periodi di secca, infine rastrellamento del fondale con il rafego o rete da ghiozzi.
Minacciate dall’inquinamento e dagli sbarramenti fluviali piuttosto che da animali predatori quali aironi e uccelli rapaci, le lamprede sono oggi in pericoloso declino e meritano una severa salvaguardia anche se godono di un’ottima reputazione per la delicatezza delle loro carni.
La tradizione gastronomica della Marca annovera “eccellenti fritture di lamprede” e ricette analoghe alle celeberrime sarde in saòr. Il lampredotto, simbolo dello street food fiorentino, pare debba il proprio nome dalla somiglianza fra l’abomaso dei bovini e la bocca della lampreda. In Francia, Spagna e Portogallo uno dei piatti più ricercati è la “lampreda alla bordolese” che consiste nella cottura della specie marina nel suo stesso sangue arricchito con vino e spezie.
La lampreda non è dunque quel tremendo mostro marino dal quale temere subdoli attacchi, ma resta un essere da non sottovalutare. Enrico I d’Inghilterra (1068 – 1135) non ascoltò i medici di corte che gli avevano proibito quel cibo succulento ma indigesto e dopo l’ennesima scorpacciata di lamprede, forse avariate, rese l’anima a Dio all’età di 67 anni.
(Foto: Wikipedia).
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