La tradizione di allevare i bachi da seta, venderne i bozzoli e filarli ottenendo seta di prima qualità pare un ricordo lontano che non ci appartiene ma si tratta di una realtà che ha fortemente influenzato il nostro territorio.
A mostrarci cosa significa dedicarsi alla bachicoltura sono Mirca Biz e Marzia Barzotto, che a Mura di Cison continuano a mantenere viva la tradizione unendo vecchie pratiche a sistemi più moderni.
“Ai bachi serve calore: con l’umidità muoiono, così come con gli sbalzi di temperatura, sono insetti delicati che mangiano esclusivamente foglie di gelso, una pianta sempre più rara e quindi doppiamente preziosa” spiega Mirca, già nota per aver cucito a mano le mascherine da distribuire al paese e per essere stata elogiata dal governatore Zaia stesso.
Scopriamo così che i bachi nascono di pochissimi millimetri, per poi svilupparsi nell’arco di 30-40 giorni chiudendosi nel loro bozzolo: “Quando diventa secco e duro è pronto: gli si toglie la peluria esterna, che una volta veniva usata per imbottire cuscini e materassi, poi si passa all’ebollizione e quindi all’ottenimento della seta” svela Marzia.
Un solo filo lungo circa 500 metri per ogni bozzolo, che nei tempi d’oro poteva arrivare anche a 2 mila metri di lunghezza.
Marzia precisa che oggi tenere dei bachi sia diventata un’opportunità per sfruttare le grandi proprietà naturali che secernono i bachi mentre filano il bozzolo, da adottare nella cosmesi e nella cura della pelle.
A illustrare i dettagli della storia che ha visto protagoniste migliaia di donne dell’Alta marca è Elisa Bellato, antropologa trevigiana che tra i corridoi del ricchissimo museo del baco da seta a Vittorio Veneto diretto da Francesca Costaperaria, in via, guarda caso, Della Seta, ci svela infinite curiosità.
“Vittorio Veneto è stato, fino a fine ‘800, il maggiore polo di gelsobachicoltura dopo Ascoli Piceno. Da qui partiva la seta per l’Austria i Balcani o la Russia, dunque è una storia che riguarda tutti i vittoriesi perché la popolazione è stata profondamente coinvolta in questo settore produttivo, che da solo costituiva i due terzi del mercato nazionale”.
Con oltre 25 tra filande, centri di ricerca e allevamento, la città ha avuto modo di sviluppare tecniche precisissime ed efficaci per ottimizzare la produzione, basti pensare che alcuni stabilimenti vincevano persino degli attestati al merito, ma sono sempre state le donne il fulcro cardine di questo commercio.
Donne con mani piccole e delicate che oggi sono diventate nodose e ricurve da un lavoro che non conosceva orari e si basava sulla più grande accuratezza.
Il museo del baco da seta di Vittorio Veneto è solo uno dei molti musei della città ma è forse il più particolare: raccoglie le testimonianze di numerose famiglie coinvolte nella produzione di semebachi e custodisce reperti unici, che vengono riconosciuti con un luccichio negli occhi di sempre meno protagoniste di un’epoca passata.
Oggi il mondo della bachicoltura vede una timida, tentennante ripresa: la seta italiana è sempre stata di prima qualità che potrebbe venire riscoperta a discapito delle stesse fibre sintetiche che ne hanno annientato il mercato a fine anni ‘70. Ci sono anche nuove opportunità, come il gelsolino, sostanza presente nei rami di gelso che fa sognare un’alternativa vegana alla seta.
Insomma, partendo da realtà locali come quelle di Mirca e Marzia, la bachicoltura potrebbe avere una nuova opportunità, risorgere dalle sue ceneri e chissà, scrivere un altro importante capitolo della storia dell’Alta Marca.
(Fonte: Alice Zaccaron © Qdpnews.it).
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