La vita di Laura Milani durante il muro di Berlino raccontata dall’agenda Doppio Tempo

Questa non è un’intervista. È la storia vera di una donna. Mia zia paterna Laura Milani, sposata Beiersdorf, nata a Premilcuore, in provincia di Forlì, il 13 dicembre 1925. È mancata dieci anni fa ma il suo ricordo, a 61 anni dall’inizio della costruzione del muro di Berlino, resta forte e ben scolpito.

Era maggiore di sei anni di mio padre Bruno. Entrambi (mio padre era medico e lei farmacista) avevano ereditato la vocazione scientifica dal nonno Amos, medico condotto, gran lavoratore, Cavaliere di Vittorio Veneto, a quei tempi un vero tuttofare, capace di estrarre denti e di far partorire le donne girando in lungo e in largo gli Appennini. Le leggende famigliari narrano che mentre raggiungeva a cavallo un paziente, in un paesino sperduto nel bosco, fu assalito dai lupi in piena notte. La borsa da medico coi “ferri del nonno” ci ha seguito per vari traslochi e mi ha sempre fatto immaginare scene cruente.

La storia di mia zia iniziò sul lungomare di Rimini dove incontrò Enzo, un soldato tedesco, giovane e prestante, di professione ingegnere. Fu amore a prima vista. Non ci fu neanche il tempo di realizzarlo e si trovò sposata per procura: giovane, piena di speranze, e col diploma di laurea appena raggiunto. Alla stazione ci andò accompagnata dal fratello (mio padre), all’epoca un liceale di 17 anni. Per i nonni il trauma della partenza sarebbe stato troppo grande: la nonna rimase a letto per giorni e non andò a salutarla in stazione. Riuscì a racchiudere in una sola valigia tutta la sua vita italiana.

Iniziò un gemellaggio con la Germania fatto di treni, lacrime, addii, partenze e lunghe estati nella riviera romagnola. Ebbe tre figli: Mara, Claudia e Andreas e ben cinque nipoti. Col marito Enzo, fino alla fine dei loro lunghi anni trascorsi insieme, si sono chiamati reciprocamente “caro” e “cara”. Nella Germania devastata del dopoguerra si costruì la sua bella famiglia, imparò il tedesco talmente bene da rimanere al di sopra di qualsiasi sospetto, non è mai sembrata una straniera, lavorò in un laboratorio chimico di una grande azienda del settore alimentare. Conciliava vita, lavoro, figli e letture di gialli in tempi in cui le donne che lavoravano in ambito scientifico erano davvero poche, per di più in un paese straniero. Era, senza saperlo, una ricercatrice illuminata ante litteram.

Le sue “ferie” italiane erano immersioni profonde negli affetti e nelle amicizie antiche, erano fatte di visite ai luoghi sacri della sua infanzia e della sua vita e di ricette italiane. Ragù e passatelli. Non ha mai perso l’accento romagnolo ed ha continuato a parlare l’italiano perfettamente fino alla fine dei suoi giorni. Questa vita da tedesca acquisita con l’Italia nel cuore proseguì fino all’agosto del 1961, quando iniziòla costruzione del muro di Berlino. Il suo terzo figlio aveva un anno.

Viveva in quella che poi sarebbe diventata la Germania dell’est, a Francoforte sull’Oder, quella meno nota e famosa, una cittadina anonima e tranquilla con tante fabbriche e qualche ufficio. Durante quell’estate avrebbe di sicuro potuto organizzare la partenza prima che diventasse una fuga dalla prigione: aveva i genitori in Italia, suo padre pronto ad acquistare una farmacia, i figli piccoli in età scolare che potevano sicuramente inserirsi nelle scuole italiane. Non lo fece: era troppo forte la paura di ritorsioni contro la famiglia di suo marito.

Tornò, come ogni anno, dopo le vacanze a Francoforte e rimase per sempre una “tedesca dell’est”, con le spalle rivolte all’Occidente. Come italiana, cattolica e colta fu sempre spiata e dopo la caduta del muro trovammo il dossier con le lettere ai suoi genitori, le foto delle nostre visite. Visse tutta la vita in un piccolo appartamento ma non si lamentò mai di quello che non aveva. Se le chiedevi “Zia, sei felice?”, rispondeva “Sì, non mi manca nulla”.

Il regime le consentiva di varcare la frontiera da sola, senza famiglia, per un tempo limitato e con permessi speciali per la cura dei genitori anziani durante l’estate. Lo fece per vari anni, fino a che lo scambio non divenne reciproco. Mio padre ci educò col culto della visita alla zia e ai cugini. Si partiva col camper, dopo mesi di pratiche per ottenere i visti.

I viaggi erano lunghi, gelidi d’inverno e l’arrivo in frontiera faceva paura. Lunghe ispezioni, controlli, urla di soldati e tanto filo spinato, guardie col fucile puntato. La sensazione di non passare era netta e concreta: bastava uno sguardo storto e ti rispedivano indietro. Ogni sbarra alzata era un sospiro di sollievo. Per anni riuscimmo ad andare a trovarla e ogni incontro era una festa, le dava la carica per il resto dell’anno.

Non si è mai detta “se fossi scappata sarebbe stato meglio”, non ha mai desiderato i vestiti coi lustrini, i collant e i bicchieri di cristallo. Non ha mai avuto smanie o pentimenti, ha trasformato in virtù i viaggi, le attese, le paure, i divieti, le carenze. Ha amato tutti dal profondo del cuore: lo zio Enzo si commuoveva all’arrivo del camper, ha sempre alzato la bandiera dell’Italia a ogni partita Italia-Germania. Grazie zia!

(Foto: Agenda Doppio Tempo).
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