Immaginate di aver appena ottenuto una promozione, di aver saldato il mutuo dell’abitazione, di aver portato a casa il primo utile della vostra attività, di aver preso una laurea, che vi sia nato un figlio o una figlia, immaginate di vivere nelle opportunità di una grande città o nella serenità di un piccolo villaggio e di pensare al futuro come fosse scontato. E poi, tutto crolla e avete pochi minuti per mettere tutto ciò che siete in una valigia e fuggire dal vostro paese.
Dall’Ucraina è in atto il più grave flusso migratorio dal secondo dopoguerra: oggi sono quasi tre milioni le persone che tentano la fuga dalla stretta di un conflitto che dipende da dinamiche mondiali. Un fenomeno che è destinato a moltiplicarsi nei numeri e che senza dubbio influenzerà la storia. Da quando abbiamo girato questo reportage (una settimana fa), il numero dei profughi è duplicato: alcuni dicono che potrebbe arrivare a nove milioni di persone.
Giungiamo a Przemyśl la mattina seguente al viaggio in auto da Conegliano, che è durato circa 14 ore. Dopo chilometri e chilometri di assolutamente nulla, tra villaggi in apparenza disabitati e strade deserte, ci sorprende vedere un vero centro abitato, con i negozi, i bar e tutto quanto: si tratta della seconda città più antica della Polonia ed è interessante per noi comprendere come sua storia abbia spesso a che fare con il concetto di confine.
Pochi sanno che durante l’operazione “Vistola”, centinaia di migliaia di famiglie ucraine furono obbligate a trasferirsi altrove: una pulizia etnica operata dai polacchi dopo la seconda Guerra mondiale che ancora oggi viene condannata da storici ucraini e polacchi. Il centro brulica, specialmente di giornalisti, che come noi cercano storie perdute.
I profughi scendono dagli autobus vicino al piazzale della stazione e cercano rifugio dentro la stazione ferroviaria: sono centinaia, in prevalenza donne e bambini, appesantiti dalle poche valigie che si portano sempre appresso. Lì dentro ci sono le loro storie, quello che rimane delle loro vite, qualche vestito, qualche ricordo. Il cellulare, specialmente, è qualcosa di molto prezioso, anche per le persone più anziane. Ormai nessuno porta con sé gli album fotografici. I volontari offrono cibo caldo, schede telefoniche per chiamare a casa o per contattare chi verrà a prenderli.
In uno dei corridoi laterali c’è un ambulatorio, mentre nelle sale d’aspetto sono state predisposte delle brande: quando viene la sera la Polizia non consente ai giornalisti di entrare, né di avvicinarsi alle finestre per permettere alle mamme di allattare e ai bambini di dormire in pace. Sulle brandine, una accanto all’altra, riposano e attendono i rifugiati: alcuni riescono persino a sorridere grazie a dei figuranti, che intrattengono i più piccoli alla sera.
La stazione di Przemyśl rappresenta un punto di smistamento, il primo tra quelli creati in città. I rifugiati devono annunciare la destinazione a cui ambiscono, se in Germania, in Repubblica Ceca o in Italia, e poi attendere che arrivi un passaggio. Dentro la stazione di pandemia non si parla nemmeno, pochi o nessuno indossano la mascherina. Come già comprovato, questo è un altro aspetto problematico, essendo l’Ucraina uno dei Paesi con la minor percentuale di popolazione vaccinata. A Przemyśl incontriamo anche il bellunese Viktor, (qui il link), e la spedizione del dottor Aurelio Tommasi (qui il link).
Il Tesco Timatii Shopping è un centro commerciale nella periferia della città: la Polizia e i Vigili del fuoco vi hanno stabilito un rifugio per chi arriva dal confine, ma i posti, anche le brande sul pavimento, sono in esaurimento. All’inizio la gente dormiva per terra, raccogliendosi sui propri stessi vestiti. Agli uomini, dice la Polizia, non è concesso entrare. Nel parcheggio antistante, i profughi vagano tra montagne di vestiti e una vasta gamma di bancarelle di cibo, bevande e altri servizi.
Nel grigiore di un pomeriggio invernale, l’apparenza è quella di una sorta di fiera desolante, ma avvicinandosi alle famiglie torna evidente il sollievo che la generosità dei volontari suscita in chi è fuggito dalla guerra: nel 2022 è bello vedere che in fondo forse qualcosa è cambiato e che il fatto di consolare i bambini è tra le priorità della nostra società, quasi quanto quello di caricare i cellulari. Giovani volontari lavorano incessantemente, creando reti tra chi offre un trasporto e chi ne ha bisogno.
Dopo una lunga coda a causa di un cantiere in corso, raggiungiamo il confine di Medyka e ci chiediamo se sia mai stato piacevole da oltrepassare: con le aiuole curate e i marciapiedi puliti, magari. Per noi, i falò nei bidoni di latta e il cibo rovesciato per sbaglio dai bambini, il nevischio che non attacca e gli anziani che si muovono lenti, corrucciati, tra le folle, sono le ceneri di un popolo che ha perso qualcosa di importante.
Sulla strada, una fila di auto attende di entrare in Ucraina: ogni volta che qualcuno si intravede all’orizzonte, un’auto, una famiglia a piedi, diventa un magnete per gli obiettivi delle videocamere di tutto il mondo. Lì vicino ci è capitato di vedere un pianista che suona per i rifugiati, tantissimi abbracci, qualche risata e una bambina che esegue eleganti balletti, commuovendo persino i poliziotti.
Poco più giù (la frontiera di Medyka sorge su una strada rialzata) ci sono un cancello verde e una via pedonale che porta alla dogana: da lì serpeggia l’interminabile scia di profughi, che lungo la via raccolgono da terra le provviste predisposte ai margini, cercando di trovare per i figli e le figlie le loro merendine preferite.
Quel punto non rappresenta il vero e proprio confine, eppure tutti vi si fermano come vi fosse un muro invisibile: alcuni si abbracciano, altri si salutano. Forse per sempre. È il punto dove siamo stati più a lungo, assieme a molti altri reporter anche italiani, e che ci ha dato le storie più capaci di descrivere le conseguenze di una guerra: come quella descritta dalla fotografia in copertina (di Simone Masetto) e dal servizio video in allegato.
“Davanti a noi, un giovane accompagna la sua ragazza ucraina alla frontiera: le dà un lungo bacio, poi lei si avvia a piedi e lui rimane immobile a guardarla. In quel momento noi siamo lì dietro, ci sentiamo vicini a lui, e aspettiamo che lei si volti e gli faccia un sorriso. E così accade. Un sorriso che vuol dire tantissime cose, ma che preannuncia un’attesa angosciosa, una paura invincibile e quel tipo di amore che si legge ormai solo nei migliori romanzi.
Dopo un quarto d’ora, quando lei scompare all’orizzonte, gli chiediamo dove lei stia andando: “Sta andando a prendere sua madre, che vive da qualche parte a Kiev – ci dice, sconvolto – E io non posso andare con lei, perché non sono cittadino ucraino”. Gli diciamo che tornerà e ce ne andiamo in silenzio, ormai è buio.
A Korczowa, in Polonia, c’è un altro centro commerciale: nel piazzale le persone attendono i trasporti degli “Straz” (così si chiamano i Vigili del fuoco e la Protezione civile polacchi) in lunghe file sotto lo scendere lento della neve: i loro sguardi sono angosciati, come se non avessero ancora elaborato ciò che hanno perso.
Le bombe, in effetti, non cadono troppo lontano da lì. Appena arriviamo, una signora colta da un momento di panico urla che è un incubo da cui non si sveglierà mai. Tra la gente c’è anche chi si mostra sereno: parla con la Polizia e i soccorsi, si informa sul viaggio che dovrà affrontare. Per gentilezza, i poliziotti portano i bagagli alle signore anche quando non è necessario.
Lungo la strada, sul confine vero e proprio, altre auto aspettano di entrare in patria o scaricare le provviste a un magazzino di poco oltre il confine: da lì, alcuni di quei veicoli percorreranno ottanta chilometri prima trovarsi dentro l’oscurità e l’incertezza della guerra. Tra le auto in fila troviamo anche una delegazione da Ferrara, dove il vicesindaco Nicola Lodi ci racconta della sua spedizione fino a lì, con viveri destinati ad arrivare a Leopoli.
Sul confine slovacco, a Vysne Nemecke, a quasi tre ore di distanza da quello polacco, batte il sole e questo rende apparentemente tutto un po’ meno malinconico: ci dicono che lì dall’Ucraina arrivano famiglie generalmente un po’ più ricche, alcune delle quali hanno prima provato altre strade, per esempio provando a passare per la Moldavia.
La Polizia e le associazioni li accolgono con cordialità all’ingresso nel loro Paese. Sono stati allestiti dei tendoni dove le persone possono fermarsi a riposare al caldo, caricare il cellulare e mangiare qualcosa. La disperazione è velata dall’orgoglio. “Non provate a intervistare un uomo – ci dicono – Se è qui significa che non è idoneo a combattere e di questo si vergogna terribilmente”.
Noi, invece, troviamo un ragazzo ucraino che ci racconta la sua storia senza alcuna diffidenza, traducendo per noi altre storie incontrate sul confine di Vysne Nemecke: “La mia famiglia si trova ancora a Kiev – ci racconta – Quando è iniziato tutto, due settimane fa, io mi trovavo già qui. La notte non riesco a dormire perché sono agitatissimo, così cerco di dare una mano e in qualche modo mi riesce”.
Davanti alla carreggiata d’ingresso in Ucraina ci sono decine di camion: alcuni trasportano elmetti, giubbotti tattici e altri equipaggiamenti. “Abbiamo svuotato tutti i mercatini dell’usato della Repubblica Ceca – ci raccontano soddisfatti degli uomini, mostrandoci un carico pieno di elmetti balistici e altre attrezzature militari – li porteremo dall’altra parte, per aiutarli a proteggersi in combattimento”.
A un certo punto nella folla notiamo un uomo che arriva con un pesante zaino, una valigia e un altro bagaglio ingombrante: è visibilmente nervoso e il primo “no” alla nostra richiesta di fargli una domanda ci fa desistere. Dopo aver parlato con dei militari e con l’autista di un autobus, l’uomo si dirige verso la corsia d’accesso in Ucraina. “Dove va?” chiediamo a un ragazzo che gli ha dato un passaggio. “Va a combattere. La sua famiglia è lì” ci dice. L’uomo sfugge alle nostre domande, sale in autobus e chiude la tendina. L’autista fischietta mentre chiude la bagagliera, si siede sul mezzo, ci sorride e chiude la porta.
Dei giovani che in questo momento si trovano al fronte si è parlato meno, come se imbracciare un fucile per loro fosse una scelta. Da una parte e dall’altra, per l’Ucraina come per la Russia, ragazzi e ragazze in uniforme muoiono per una causa che probabilmente non comprendono ancora a pieno: motivazioni politiche, economiche, sociali che sfuggono anche a noi, che osserviamo negli occhi di questi profughi il riflesso di chi hanno dovuto lasciare.
(Fonte: Qdpnews.it)
(Foto e video: Simone Masetto e Luca Vecellio – Qdpnews.it – © Riproduzione riservata).